di Massimiliano Di Pasquale

La Paura e la Ragione. Il collasso della democrazia in Russia, Europa e America, l’ultimo lavoro di Timothy Snyder, storico statunitense dell’Università di Yale, è un saggio che documenta con encomiabile rigore filologico il dilagare dell’autoritarismo in Russia, negli Stati Uniti e in Europa. L’accademico americano, tra i più autorevoli esperti mondiali di storia dell’Europa centro-orientale, dopo aver introdotto nel prologo i concetti di inevitabilità e di eternità passa in rassegna i principali eventi che hanno interessato la storia contemporanea dal 2011 al 2016, dal momento che “negli anni Duemiladieci è accaduto più di quanto immaginiamo”.

Con il crollo dell’URSS e dei regimi comunisti del Patto di Varsavia, la stragrande maggioranza degli europei e degli americani era convinta che la vittoria della democrazia fosse definitiva e che il nuovo millennio avrebbe portato una stagione di pace e prosperità mondiali e di collaborazione tra Est e Ovest. Ma così non è stato.

Gli americani e gli europei sono entrati nel nuovo secolo guidati da un racconto «sulla fine della storia», da quella che chiamerò politica dell’inevitabilità, ossia la convinzione che il futuro sia soltanto una continuazione del presente, che le leggi del progresso siano note, che non ci siano alternative e, dunque, nemmeno rimedi”.

Corollario di questa politica, smentita dai fatti sin dai primi Anni Novanta, ma i cui fallimenti si sono palesati solo a partire dal 2008 (quell’anno segna l’inizio della crisi economica a livello globale ma anche l’avvio della politica neo-imperiale di Mosca con l’invasione della Georgia), era, nella versione americana, l’assunto che “la natura ha prodotto il mercato, che ha prodotto la democrazia, che ha prodotto la felicità” e, in quella europea, l’assunto che “la storia ha prodotto la nazione, che ha imparato dalla guerra l’utilità della pace, e pertanto ha scelto l’integrazione e la prosperità”.

Anche l’Unione Sovietica prima della sua implosione nel 1991 aveva elaborato una sua politica dell’inevitabilità in base alla quale “la natura permette la tecnologia, la tecnologia produce il cambiamento sociale, il cambiamento sociale provoca la rivoluzione, la rivoluzione mette in atto l’utopia”.

Il crollo dei regimi comunisti dimostrò l’erroneità di questa visione facendo gongolare i politici dell’inevitabilità occidentali europei e statunitensi, che per venticinque anni hanno ripetuto i loro racconti di inevitabilità allevando una generazione di Millennial senza storia.

Il crollo della politica dell’inevitabilità, testimoniato sia dalla crisi finanziaria del 2008 sia dall’insufficienza del paradigma economicistico nel forgiare sistemi liberali e democratici nei Paesi dell’ex blocco sovietico – Snyder sottolinea acutamente come “i destini della Russia, dell’Ucraina e della Bielorussia dopo il 1991 dimostravano più che a sufficienza come la caduta di un sistema non creasse una tabula rasa su cui la natura generava i mercati e i mercati generavano i diritti” –, ha introdotto un’altra visione del tempo: la politica dell’eternità.

Mentre l’inevitabilità promette un futuro migliore per tutti, l’eternità colloca una nazione al centro di un racconto ciclico di vittimizzazione. Il tempo non è più una linea verso il futuro, bensì un ciclo che riproduce senza fine le minacce del passato”.

Nella politica dell’eternità, inaugurata dalla Russia di Putin negli anni Duemiladieci, i politici diffondono la convinzione “che il governo non possa favorire la società nel suo complesso, ma soltanto metterla in guardia dalle minacce”.

Snyder sottolinea come una volta al potere i politici dell’eternità fabbrichino crisi e manipolino le emozioni e per distrarre i cittadini dai problemi reali di un Paese “li incoraggiano a provare euforia e indignazione a brevi intervalli, annegando il futuro nel presente”. In politica estera screditano i successi di Paesi percepiti come modelli agli occhi di un vasto pubblico e servendosi della tecnologia negano la verità e trasmettono una fiction politica sia in patria sia all’estero.

A detta dello storico di Yale “gli anni Duemiladieci si sono contraddistinti soprattutto per la creazione intenzionale di una fiction politica, di storie ingombranti capaci di monopolizzare l’attenzione e di colonizzare lo spazio necessario per la riflessione”.

La paura e la ragione nasce come “tentativo di restituire il presente al tempo storico, e dunque di restituire il tempo storico alla politica”. Dopotutto la storia come disciplina, fa notare Snyder, è nata con Tucidide in antitesi alla propaganda bellica.

Il libro, che “scava nella storia russa, ucraina, europea e americana nella misura in cui ciò serva per definire i problemi politici del presente e per sfatare alcuni dei miti che li ammantano”, è diviso in sei capitoli i cui titoli sono strutturati come alternative: Individualismo o totalitarismo (2011), Successione o fallimento (2012), Integrazione o impero (2013), Novità o eternità (2014), Verità o menzogne (2015), Uguaglianza o oligarchia (2016).

Ivan Ilyin: politica dell’eternità e fascismo cristiano

Snyder approfondisce il tema della politica dell’eternità promossa dal Cremlino e individua nel 2011 il preciso momento in cui in Russia si compie la svolta autoritaria in fieri da anni e nel fascismo cristiano di Ivan Ilyin le fondamenta teoriche del regime putiniano.

Ilyin, nato a Mosca nel 1883 in una famiglia nobile che sosteneva di discendere dal principe della Rus di Kyiv, Rurik, sognò inizialmente che la Russia si trasformasse in uno Stato governato dalle leggi, ma dopo l’esperienza della Prima Guerra Mondiale e della Rivoluzione d’Ottobre divenne un controrivoluzionario e, con il tempo, l’artefice di un fascismo cristiano volto a sconfiggere il bolscevismo. Gran parte della sua produzione filosofica fu elaborata all’estero, in Germania e in Svizzera, dove visse da esule a partire dal 1922.    

Agli inizi degli Anni Duemila, Ilyin morto in Svizzera nel 1954 in oblio, viene rispolverato dal Cremlino che cerca un ideologo per il nuovo corso. Il suo breve libro I nostri compiti  inizia a circolare in nuove edizioni, la sua opera omnia viene ristampata e le sue idee conquistano nuovi potenti sostenitori. Nel 2005 Putin organizza persino la sua risepoltura a Mosca.

Nel 2005, Putin aveva fatto riseppellire il corpo di Il’in presso un monastero dove la polizia segreta sovietica aveva incenerito i cadaveri di migliaia di cittadini russi giustiziati durante il Grande terrore. Al momento della risepoltura di Il’in, il capo della Chiesa ortodossa russa era un uomo che al tempo dell’URSS era stato agente del KGB”.

A partire da quella data il presidente russo inizia a citare Ilyin nei discorsi presidenziali annuali di fronte alla Duma. “Negli anni Duemiladieci, – ricorda Snyder – Putin ha fatto affidamento sull’autorevolezza di Il’in per spiegare perché la Russia dovesse indebolire l’Unione Europea e invadere l’Ucraina. […] La classe politica russa ha seguito il suo esempio. Il suo responsabile della propaganda, Vladislav Surkov, ha adattato le idee di Il’in al mondo dei media moderni. Ha orchestrato l’ascesa di Putin al potere e ha supervisionato il consolidamento dei media che ha garantito il suo dominio apparentemente eterno”.

Cerchiamo ora di riassumere brevemente il pensiero di Ilyin. Nonostante le sue idee siano state proposte ai russi un secolo fa, vengono implementate solo oggi. Ilyin, analogamente a Marx, si rifà al corpus filosofico hegeliano, offrendone però una lettura di destra. Ilyin, come Marx, sostiene che la storia sia iniziata con un peccato originale così grave da condannare l’umanità alla sofferenza. Ma il peccato originale, secondo Ilyin, non fu perpetrato dall’uomo sull’uomo attraverso la proprietà privata ma da Dio sull’uomo attraverso la creazione del mondo.

La vita è infelice e caotica, come credono i marxisti, ma non per colpa della tecnologia e del conflitto di classe. Le persone soffrono perché il creato di Dio è conflittuale in maniera irrisolvibile. I fatti e le passioni non si possono allineare con la rivoluzione, ma solo con la redenzione. L’unica totalità è quella di Dio, e una nazione eletta la ricostruirà grazie al miracolo compiuto dal redentore”.

Secondo Ilyin la patria di Dio era la Russia. La Russia era da tutelare a tutti i costi perché era l’unico territorio da cui sarebbe potuta iniziare la ricostruzione della totalità divina.

Snyder fa notare come nonostante Ilyin fosse antibolscevico e ammirasse Hitler il suo pensiero non si discostasse troppo nelle sue implicazioni pratiche da quello di Stalin. Non è un caso che la Russia attuale, che lo elegge a suo ideologo, è lo stesso Paese che riscrive i libri di storia riabilitando il  culto di Stalin.

Dopo la guerra, Stalin diede la priorità alla nazione russa (rispetto all’Ucraina, alla Bielorussia, all’Asia Centrale, al Caucaso, alle decine di popoli dell’Unione Sovietica). La Russia, riteneva Stalin, aveva salvato il mondo dal fascismo. Secondo Il’in, l’avrebbe salvato non dal ma con il fascismo. In entrambi i casi, l’unico ricettacolo del bene assoluto era la Russia, e l’eterno nemico l’Occidente in declino”.

Per Ilyin la parentesi comunista vissuta dalla Russia era il frutto della corruzione proveniente dall’Occidente. Nella sua visione il comunismo era stato imposto alla Russia dall’Occidente. La Russia è innocente ma la sua innocenza non è osservabile nel mondo. Ilyin vede “la propria nazione come virtuosa, e la purezza di questa visione è più importante di qualunque cosa i russi abbiano effettivamente fatto”.

Per Ilyin che si rifà al teorico nazista del diritto Carl Schmitt la politica è l’arte di identificare e neutralizzare il nemico. E dal momento che la Russia è l’unica fonte di totalità divina e di purezza, l’uomo spuntato dal nulla, che i russi riconosceranno come il redentore, potrà muovere guerra a chi minaccia i successi spirituali della nazione.

Fare la guerra contro i nemici di Dio significa esprimere innocenza. La guerra (non l’amore) è la valvola di sfogo adeguata per la passione, perché non mette in pericolo la verginità del corpo nazionale ma la protegge”.

La fantasia di una Russia innocente in eterno che comprende la fantasia di un redentore innocente in eterno torna utile al regime cleptocratico di Putin che la sfrutta opportunisticamente per coprire una realtà fatta di ingiustizie sociali, soprusi e incapacità di evoluzione in senso democratico.

Putin, i suoi amici e i suoi alleati hanno accumulato illegalmente un’enorme ricchezza e poi hanno rifatto lo Stato in modo da salvaguardare i propri profitti. Dopo aver raggiunto questo obiettivo, i leader russi hanno dovuto far coincidere la politica con l’essere anziché con il fare. Un’ideologia come quella di Il’in pretende di spiegare perché certi uomini abbiano denaro e potere escludendo le motivazioni dell’avidità e dell’ambizione. Quale ladro non preferirebbe essere chiamato redentore?

Vladimir Putin il redentore

Il secondo capitolo, Successione e Fallimento, riprende il concetto ilyiniano di ‘nazione innocente’ e di ‘redentore’ e analizza il percorso politico intrapreso dalla Federazione Russa dal crollo dell’URSS fino ad oggi. L’anno di svolta, come già affermato in precedenza, coincide con il biennio 2011-2012 quando Putin, gettando discredito sulle elezioni democratiche, indossa il mantello dell’eroico redentore e getta il suo Paese nel pieno dilemma di Ilyin, riassumibile in questa proposizione: ‘nessuno può cambiare in meglio la Russia finché Putin rimane in vita, e nessuno in Russia è in grado di dire cosa accadrà dopo la sua morte’.

Snyder sottolinea come, a partire dalle elezioni del 2012, la Federazione Russa, nata nel 1991 come una repubblica costituzionale, legittimata dalla democrazia, dove il presidente e il parlamento sarebbero stati scelti attraverso elezioni libere, abdichi al principio di successione.

Nonostante “la democrazia non si è mai davvero affermata in Russia, nel senso che il potere non è mai passato di mano in seguito a elezioni libere”, Putin avrebbe spinto alle estreme conseguenze il concetto di “democrazia gestita”, al punto di non negare neppure di aver alterato le regole del gioco democratico. Le elezioni, non sono più un mezzo per esprimere la volontà dei cittadini ma diventano, proprio come teorizzato da Ilyin, solo un rituale. Per il filosofo fascista la Russia avrebbe dovuto essere uno Stato apartitico, redento da un solo uomo e i partiti semplicemente dei simulacri utili unicamente per ritualizzare le elezioni.

Il 5 marzo 2012, circa venticinquemila cittadini russi protestarono a Mosca contro i brogli alle elezioni presidenziali. Per Putin, i mesi tra il dicembre del 2011 e il marzo del 2012 furono un momento di scelta. Avrebbe potuto ascoltare le critiche alle elezioni parlamentari. Avrebbe potuto accettare l’esistenza delle votazioni e vincere al ballottaggio anziché già al primo turno; in fondo, la vittoria al primo turno non era nient’altro che una questione di orgoglio. Avrebbe potuto comprendere che molti contestatori erano preoccupati riguardo al principio di legalità e al principio di successione nel loro Paese. Invece, sembrò prendere le proteste come un’offesa personale”.           

Putin decide in uno primo tempo di associare l’opposizione democratica alla sodomia globale (il tema verrà ripreso ai tempi del Maidan di Kyiv dipingendo l’Accordo di Associazione Economica dell’Ucraina con la UE come un tentativo, da parte della Gayropa, ossia dell’Europa dei gay, di minare i valori cristiani in Ucraina), in una seconda fase afferma che i contestatori sono al servizio di una potenza straniera, ossia degli Stati Uniti, il cui diplomatico più importante è una donna: Hillary Clinton.

Ovviamente il Cremlino non produce alcuna prova, del resto il punto non è quello piuttosto scrive Snyder “inventare una storia sull’influenza straniera e usarla per cambiare la politica interna”. Putin decide di scegliersi il nemico che meglio si adatta alle sue necessità di leader, non quello che minaccia realmente il suo paese.

L’Occidente venne scelto come nemico proprio perché non rappresentava nessuna reale minaccia per la Russia. A differenza della Cina, l’Unione Europea non aveva né un esercito, né un lungo confine in comune con la Russia. Gli Stati Uniti, d’altro canto, pur avendo un esercito, avevano ritirato la stragrande maggioranza delle loro truppe dal continente europeo: da circa 300.000 uomini nel 1991 a circa 60.000 nel 2012. La NATO esisteva ancora, e aveva annesso alcuni ex Paesi comunisti dell’Europa dell’Est, ma il presidente Barack Obama aveva cancellato nel 2009 il piano americano per la costruzione di un sistema di difesa missilistico nell’Europa orientale, e nel 2010 la Russia stava permettendo agli aerei americani di attraversare il proprio spazio aereo per andare a rifornire le forze statunitensi in Afghanistan”.

L’Unione Europea e gli Stati Uniti vengono dipinti dalla propaganda del Cremlino come minacce semplicemente perché le elezioni russe sono state manipolare. La presentazione degli Stati Uniti e della UE come nemici sarebbe diventata la premessa della politica russa, dopo che “Putin aveva ridotto lo Stato russo al proprio clan oligarchico e al suo momento presente”.

Con il ritorno di Putin alla presidenza nel 2012, lo Stato russo viene trasformato in modi che corrispondevano alle idee di Ilyin. A partire da questo periodo la Russia si trasforma in uno stato fascista. La diffamazione diventa un illecito penale, la religione ortodossa si allea con il Cremlino divenendo a tutti gli effetti un suo braccio armato, comincia la persecuzione delle organizzazioni non governative, si glorificano carnefici del passato come Felix Dzerzinskij, fondatore della Cheka, cui viene intitolata una nuova unità dell’FSB, si distruggono gli archivi di Memorial, centro che aveva documentato le sofferenze dei cittadini sovietici ai tempi di Stalin.

In un articolo del 23 gennaio 2012, uscito qualche settimana dopo le elezioni parlamentari, Putin abolisce i confini legali della Federazione Russa e descrive la Russia non come uno Stato ma come una condizione spirituale gettando di fatto le basi per la ‘giustificazione teorica’ della guerra in Ucraina di due anni più tardi.

Vladimir Putin si erge dunque a redentore ilyiniano che emerge da oltre i confini della storia e incarna misticamente il passato millenario russo. Peccato, fa notare Snyder, che ai tempi di Volodymyr e del battesimo della Rus, la città di Mosca non esistesse neppure e che lo stato medioevale della Rus non coincida affatto con l’attuale Russia.

Imperi, stati nazionali e democrazie  

Il terzo capitolo, Integrazione e Impero,  si apre con una riflessione di grande momento sul principio di successione attraverso il quale uno Stato esiste nel tempo, sul principio di integrazione attraverso il quale uno Stato, organizzando i propri rapporti con l’estero, esiste nello spazio e sul fenomeno, già sperimentato agli inizi del Novecento, della globalizzazione.

Come spesso accade, la riflessione su ciò che in apparenza sembra scontato si rivela molto utile, nel nostro caso fondamentale per comprendere la crisi delle nostre democrazie e per tentare di fornire qualche risposta di carattere politico. Nell’epilogo del saggio Snyder  torna su questi concetti sottolineando la necessità da parte di uno stato di dotarsi di un principio di successione e di una qualche forma di integrazione ma anche la necessità da parte dei cittadini di coltivare una politica della responsabilità perché “studiando le virtù che la storia ci rivela, diventiamo i costruttori di un rinnovamento che nessuno può prevedere”.

È proprio attraverso lo studio della storia che Snyder smaschera le menzogne del Cremlino sulla Rus di Kyiv e, con grande onestà intellettuale, pure gli eccessivi entusiasmi occidentali su cui si è costruita prima la politica dell’inevitabilità e oggi, anche grazie al dilagare della propaganda russa, la rinascita in Europa dei nazionalismi.

Considerare l’integrazione europea come qualcosa di dato, dimenticando l’esistenza di altri modelli, è stato sicuramente un grave errore che combinato alla dezinformatsiya russa ha contribuito a incrinare la fiducia nelle istituzioni democratiche europee. Lo studio della storia ci dice come i nazionalismi siano stati l’anticamera di nazismo e stalinismo, ossia del totalitarismo.

Chi, facendo propria la retorica sovranista/nazionalista, auspica il ritorno agli stati nazionali come a un’idealizzata età dell’oro dimostra o di non conoscere la storia o di sponsorizzare l’agenda del Cremlino per un mero interesse privatistico.

La storia ci insegna che gli Stati nazionali, sorti dalla disgregazione dei quattro grandi imperi (zarista, asburgico, tedesco e ottomano), hanno avuto una vita piuttosto breve finendo presto risucchiati entro entità totalitarie come la Germania Nazista e l’Unione Sovietica che, con il Patto Molotov-Ribbentrop, strinsero addirittura un’alleanza per spartirsi l’Europa.  

Nel 1950, il comunismo aveva conquistato quasi tutta quella zona dove, al termine della Prima guerra mondiale, si erano affermati degli Stati nazionali. In seguito alla Seconda Guerra Mondiale, così come in seguito alla Prima, l’opzione dello Stato nazionale dimostrò di essere un’alternativa impercorribile per l’Europa”.

Mentre l’Europa orientale stava sperimentando il comunismo sovietico, quella Occidentale, sfruttando l’appoggio finanziario statunitense, aveva intrapreso un nuovo esperimento con il principio di legalità e le elezioni democratiche.

Anche se le politiche si differenziavano profondamente da Stato a Stato, in generale in quei decenni l’Europa costruì un sistema di assistenza sanitaria e di previdenza sociale che le successive generazioni avrebbero dato per scontato. Nell’Europa centrale e occidentale, lo Stato non dipendeva più dall’impero ma poteva essere salvato attraverso l’integrazione”.

L’efficacia di questo modello fa sì che, con il crollo dell’URSS, ben undici Paesi post-comunisti (Polonia, Ungheria, Romania, Bulgaria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, Lettonia, Lituania, Estonia e Croazia) aderiscano alla UE.

Nel 2013 anche l’Ucraina decide di avvicinarsi, inizialmente con la sottoscrizione di un Trattato di Associazione Economica, alla UE. Ma la firma avverrà solo nel 2017 dopo che la Russia per impedire l’avvicinamento di Kyiv all’Europa, ha invaso prima la Crimea, annettendosela e ha poi aperto un fronte di guerra nella regione orientale del Donbas.          

Negli anni Duemiladieci, nazionalisti, sovranisti e fascisti contrari alla UE iniziano a promettere agli europei un ritorno a una storia nazionale immaginaria. La Russia, incapace di creare uno Stato stabile caratterizzato da legalità e da un principio di successione, decide di presentarsi come un modello per l’Europa enfatizzando non la prosperità e la libertà, valori non conseguibili in Russia, ma sessualità e cultura dipingendo Europa e Stati Uniti come minacce ai presunti valori della Santa Madre Russia.

In quest’ottica, Putin non era uno statista fallito ma un redentore nazionale. Quelli che la UE potrebbe descrivere come fallimenti di governo andavano visti come il fiorire dell’innovazione russa”.

Il modello da contrapporre all’Occidente corrotto e all’Unione Europea governata da gay, pervertiti e lobby ebraiche è l’Eurasia ossia un impero che si estende da Vladivostok fino a Lisbona con capitale Mosca, città sin dai tempi dell’Orda d’Oro mongola “al riparo dalle corruzioni europee come la tradizione classica greca e romana, il Rinascimento, la Riforma e l’Illuminismo”.

Prima di occuparsi di Dugin, il più famoso teorico dell’Eurasia attuale, Snyder dedica diverse pagine all’eurasiatismo degli anni Venti di pensatori contemporanei di Ilyin, alla tradizione slavofila che si opponeva al pensiero degli occidentalisti nell’Ottocento e al pensiero di Lev Gumilev con cui negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta del Novecento si ebbe il rilancio della tradizione euroasiatica in Unione Sovietica.

L’Eurasia degli anni Duemiladieci, ossia quella teorizzata da Dugin e dall’Izborsk Club, un club fondato dallo scrittore fascista Prokhanov, si fonda su due concetti: la corruzione dell’Occidente e la malvagità degli ebrei.

Snyder fa giustamente notare come Dugin, che nei primi Anni Novanta scriveva usando lo pseudonimo Sievers, scelto per richiamarsi a Wolfram Sievers, un nazista tedesco famoso per la sua collezione di ossa di ebrei assassinati, abbia sempre usato il termine Eurasia “per dare un suono più russo alle sue idee naziste”.

Dopo aver perorato la causa di “un fascismo rosso e senza confini” fondando nel 1993 assieme a Eduard Limonov il Partito nazionalbolscevico, agli inizi del XXI secolo Dugin, dovendosi confrontare con il successo dell’Unione Europea, inizia a parlare di “un’Eurasia che avrebbe dovuto includere l’Ucraina come elemento della civiltà russa”.

L’ucrainofobia, l’antisemitismo e l’odio per l’Occidente lo portano a fondare nel 2005 un movimento giovanile, sostenuto dallo Stato, i cui membri chiedono la disgregazione e la russificazione dell’Ucraina.

Nove anni più tardi Dugin, nel frattempo divenuto uno degli ideologi e degli spin doctors del Cremlino, sarà tra i massimi sostenitori dell’intervento russo in Donbas. Sarà proprio lui a fabbricare la fake news secondo cui l’esercito ucraino durante la ‘primavera russa’ avrebbe crocifisso un bambino nella città di Slovyansk.

Con l’occupazione della Crimea e la guerra in Donbas caldeggiate da Dugin e dal circolo fascista di Prokhanov la Russia di Putin inaugura una nuova era nella sua storia quella dello schizofascismo.  Scrive acutamente Snyder come la ‘primavera russa’ abbia portato alla ribalta “una nuova varietà di fascismo, che si potrebbe chiamare schizofascismo : i veri fascisti che chiamano «fascisti» gli avversari, accusando gli ebrei dell’Olocausto e usando la Seconda guerra mondiale per giustificare ulteriori violenze”.

Putin arrivò a definire fascisti gli ucraini che si opponevano all’invasione del Donbas. La politica estera russa del 2014 era molto simile a quella praticata da Hitler e da Stalin negli Anni Trenta.

Il Piano di politica estera del ministro Lavrov, invocato per giustificare l’invasione dell’Ucraina, ribadì il principio secondo cui uno Stato poteva intervenire per proteggere chiunque considerasse un rappresentante della propria cultura. Era la stessa argomentazione che Hitler aveva usato per annettere l’Austria, per dividere la Cecoslovacchia e per invadere la Polonia nel 1938 e nel 1939, e la stessa che Stalin aveva usato quando aveva invaso la Polonia nel 1939 e annesso l’Estonia, la Lettonia e la Lituania nel 1940”.

Fake news, dezinformatsiya, misure attive

Uno dei capitoli più interessanti del saggio è quello intitolato Verità o menzogne. Snyder, dopo aver spiegato che attraverso la dezinformatsiya diffusa da social media, spesso attraverso account fake (bot), e troll la Russia ha consolidato la sua politica dell’eternità, passa a esaminare casi concreti di fake news utilizzate per riorientare le opinioni della gente su temi sensibili, come l’immigrazione, capaci di creare delle fratture all’interno delle democrazie occidentale in Europa e negli Stati Uniti.

Interessante anche l’analisi del termine guerra ibrida usato per definire la guerra della Russia contro l’Ucraina.

Il problema di usare espressioni in cui il sostantivo «guerra» è qualificato da un aggettivo come «ibrida» è che suonano come «guerra meno qualcosa», mentre il loro reale significato è  «guerra più qualcosa». L’invasione dell’Ucraina era una guerra regolare, come pure una campagna partigiana per indurre i cittadini ucraini a combattere contro il proprio esercito. Oltre a questo, fu anche la più vasta ciberoffensiva della storia”.

Approfondendo con dovizia di particolari e veri e propri case studies (abbattimento del MH17,  Brexit e presunto stupro, in realtà mai avvenuto, di una cittadina tedesca di origini russe da parte di un immigrato) temi cruciali quali guerra ibrida, uso manipolativo dei social, questo capitolo risulta propedeutico a quello finale Uguaglianza e Oligarchia in cui Snyder svela i contorni dell’operazione che ha portato nel 2016 all’elezione negli Stati Uniti di Donald Trump. Sicuramente il più grande successo assieme alla Brexit della guerra di Putin contro l’Occidente.

Dopo aver usato i propri bot su Twitter per incoraggiare il «Leave» nel referendum sulla Brexit, la Russia li rimise all’opera negli Stati Uniti. In diverse centinaia di casi (come minimo), gli stessi bot che avevano lavorato contro l’Unione Europea attaccarono Hillary Clinton; la maggior parte dei messaggi dei bot stranieri erano pubblicità negativa nei suoi confronti. […] Troll e bot russi si mossero anche per sostenere direttamente Trump nei momenti cruciali: lodarono lui e la Convention nazionale repubblicana su Twitter, e quando Trump dovette affrontare il difficile momento del dibattito con la Clinton, troll e bot russi riempirono l’etere con dichiarazioni che sostenevano che aveva vinto o che il dibattito era stato in qualche modo manovrato contro di lui. Negli Stati in bilico vinti da Trump, l’attività dei bot si intensificò nei giorni prima delle elezioni. Il giorno stesso delle votazioni, i bot stavano lanciando l’hashtag #WarAgainstDemocrats («Guerra ai Democratici»)” .               

Timothy Snyder – La paura e la ragione. Il collasso della democrazia in Russia, Europa e America (Rizzoli, 2018)