Incontrando oggi Domenico Quirico alla mostra di Torino “aRma il prossimo tuo” dove è stato ospite Roman Maksimevits (eroe di guerra ucraino) si è anche parlato dei ricordi del Maidan.
Quirico scrisse un bellissimo articolo durante quei giorni, visse la piazza dal suo interno avendo lui una stanza all’Hotel Dnipro nella piazza Europa.
Vogliamo qui riproporre quel pezzo datato febbraio 2014 in quanto colse l’essenza di quella rivoluzione e fece emergere il lato debole dell’Europa, incapace di comprendere che in quella piazza si stava combattendo per quei valori europei che negli anni sono cominciati a venir meno anche nei paesi dell’Unione.
Ecco cosa scrisse Domenico Quirico, in data 02 febbraio 2014, cioè dopo l’inizio degli scontri di Hrushevskogo ma prima della mattanza del 18 – 19 febbraio.
Fra i pope, le Marianne e gli attivisti del “Maidan”: “Ci avete abbandonati ma non capite che in questa piazza ci sono i veri valori dell’Europa”
è odore di polvere, di aria morta, di minestra, e di immortalità. Nell’immenso salone del comune di Kiev, occupato dai ribelli di Maidan, un ragazzo suona il pianoforte, note distratte, isolate. Pare insegua non uno spartito ma il filo di un pensiero. Sul bianco di una colonna hanno scritto parole perentorie, implacabili: «La città appartiene al popolo». Come i bolscevichi sulle mura di un altro palazzo, un collegio per principesse, a San Pietroburgo, in un’altra rivoluzione. I cittadini bisbigliano con l’eterna pazienza di chi ha avuto a che fare con poteri dispettosi e indifferenti e fanno la coda, ai tavoli giovani ribelli e anziane «babuske» li attendono dietro pile di moduli e di carte. Li osservo. C’è una vita semplice e sana là dentro, vita di chi lavora di braccia, stanchezza della sera cena figli un sonno duro, senza sogni. L’Ucraina: un paese disarmato, assediato da un vicino ben attrezzato e assai pericoloso.
Una Pasionaria di vent’anni, quelle donne che fanno la comparsa nei grandi rivolgimenti, come pesci volanti annunciano la profondità degli abissi. La rivoluzione che non conosce compromessi, non conosce problemi, non conosce le tempeste e gli oscuri misteri della politica; conosce solo la vittoria e la sconfitta, non è seduzione ma volo, non è lusinga ma baldanza, non ha misteri. E per questo è vertigine.
Ivanna ha occhi di bimba, scintillanti di gioia silenziosa, difficile dire se il suo volto è banale o prezioso sotto la cascata di capelli biondi. Innocente e avventata si volge alla tentazione e alla varietà della rivolta come una pianta alla luce. È tutta tesa verso l’avvenire. Non ricorda, esiste. Nulla è ancora avvenuto, in fondo. Ma non è necessario che avvenga: tutto si decide molto, molto prima del fatto. La Storia non si vede, come non si vede crescere l’erba. Mi aveva detto una frase, quel giorno «Noi ucraini non vogliamo i valori di voi europei, ma la pratica di quei valori. È un bel segno, rallegratevi, stiamo lottando per voi… per mostrarvi quello che dovreste essere».
Mi fa un cenno, imperiosa: «Sali, ti mostro come funziona bene la nostra rivoluzione. Siamo disciplinati noi, nessuna violazione della legge obbediamo agli ordini del Consiglio del popolo. Guarda questi uffici: gli impiegati del comune lavorano normalmente, nessuno li disturba tutto funziona meglio di prima perché anche gli impiegati sono dalla nostra parte…». E ride felice.
Ivanna: perché fai la rivoluzione a Maidan? Appoggia il braccio sulla palma, il suo stelo scarno ondeggia lievemente: «Vivere significa vivere di altri, ci divoriamo a vicenda e quando c’è un piccolo sprazzo di solidarietà non lasciamocelo sfuggire. Rinforza quando si vive una vita dura come la nostra… Voglio che tu conosca Leonid».
È anziano, un sorriso timido, di bestia inquieta: «Faccio il camionista a Leopoli, mi mancano tre mesi alla pensione. A gennaio sono venuto qui, ho visto questi ragazzi, non sono più partito. Tornerò a casa per una settimana, ma ci sarà mio figlio a sostituirmi. Questo regime ci tratta come animali, abbiamo la nostra dignità. Vogliamo cambiare il potere tutto deve essere nuovo per i nostri figli, per i nostri nipoti». E Leonid piange, privo di forze piange. Perché il dolore lo porta come una scheggia di legno sotto le unghie, come una spina nel cuore.
Chiedo a Ivanna: parlami ancora dell’Europa. «Non vogliamo perdere la nostra identità, la amiamo, ci fa vivere, è il nostro sangue. Vogliamo il vostro sistema di regole, legali e economiche, che qui non esistono. Guarda che in queste poche settimane sono già accadute cose straordinarie. Gli intellettuali dicevano: ci vorranno decenni per formare una società civile in un posto come questo; e invece… ecco fatto! La gente va a cucinare, a meno venti gradi!, per quelli che occupano la piazza, gli avvocati si mobilitano per difendere gli arrestati, i medici curano i feriti, i giornalisti creano una rete di informazione alternativa. Le donnette portano vestiti, scarpe, cibo. Perché gli studenti non perdano l’anno hanno montato tende dove i professori tengono i corsi e correggono i compiti…».
L’Europa: il crollo sovietico è stato un evento senza destino, una quercia divorata dai vermi, dall’interno. La loro vera liberazione è questa, oggi. A Kiev cercano di dare un nuovo nome all’ideale, cercano di tenerlo in vita, lo chiamano Europa, una entità che forse esiste soltanto nei libri, che assiste indifferente, pavida. Forse bisogna metterli in guardia dalla eventuale delusione, bisogna spiegar loro che le delusioni sono l’inizio dell’età adulta, che in ogni delusione c’è qualcosa che dà forza e fermezza.
Penso a quello che mi ha detto Dmitro Pavlicko, uno dei maggiori poeti ucraini: è stato in prigione sotto i comunisti, ha creato il primo partito dopo l’indipendenza, ha scritto «le poesie dai Maidan», a 84 anni!, per gridare insieme ai ragazzi della Piazza: «L’Europa per me è Leonardo, Michelangelo, Petrarca… Uno zar, Putin, ci ha comprato con quindici miliardi per farci entrare nella nuova Urss, l’Europa è la nostra libertà, se cadremo cadrà anche l’Europa. Mi consolo; se mi uccideranno resteranno le mie parole, il primo articolo della Costituzione…».
Nella nostra grigia esistenza sempre più economica, europei vincenti, svuotati, stanchi e disillusi, ci accorgiamo che a Est c’è gente che sta cercando di rianimarci, che solo grazie a loro potremo resuscitare e ritrovare noi stessi? Forse siamo noi ad avere bisogno di loro, per ritrovare energia e fede. E ricordiamoci che nulla può diventare più estraneo di ciò che si è amato.
Nell’atrio donne in lunga fila portano vestiti e pane per i ragazzi di Maidan. Mi vien incontro padre Oleg, greco-ortodosso, aveva una parrocchia in Germania, è tornato «perché il potere maltratta i cittadini del mio paese». «Non possiamo tradire come Pietro quando arrestarono Gesù, dobbiamo voltarci e tornare indietro. Qui la Chiesa ha sempre sofferto, è con il popolo, essere prete è il dovere di condividere, di testimoniare nella sofferenza e nel sangue».
L’Europa e la fede: le due anime di questa rivoluzione. Penso alla preghiera che a mezzanotte, ogni notte, si recita insieme, nel gelo, sul palco di Maidan; alla umile tenda cappella che è sulla piazza sotto la colonna all’indipendenza. L’hanno costruita i cattolici ma vengono a pregare tutti: dietro una tenda bianca l’immagine della madonna che protegge Kiev, ha le mani aperte per accogliere. Già: Kiev, la seconda Gerusalemme, che l’oro di quattrocento chiese faceva risplendere come un scrigno… Il patriarca Filarete mi ha accolto tra antiche icone e ritratti di monaci venerabili. Il suo sguardo pare una cosa materiale, che abbia un peso, la voce dolcissima e triste, piena di golfi sereni, di curve armoniose, di rosee penombre.
«A Maidan ci sono i cristiani, i sacerdoti pregano lì, questo popolo indignato non si può sconfiggere anche se ci sarà la guerra civile. Perché vogliamo entrare in Europa? Perché questa è la sola garanzia della nostra indipendenza. Questo popolo ha superato con la fede molte prove, la guerra, la grande fame… non vogliamo vivere nel sistema totalitario. La Russia con ogni mezzo preme per farci rinunciare, il gas, i ricatti, il blocco dei nostri prodotti, vuole creare un nuovo sistema attorno a sé, meglio un nuovo impero. L’Europa non può limitarsi ad assistere, a dire ci spiace…».
Esco nella via Kresciatik, sembra che sui muri sia stato gettato un immenso lenzuolo bianco come prima di una solenne inaugurazione. A destra e a sinistra, le strade di accesso sono chiuse da barricate di ghiaccio, la spina dorsale della rivoluzione, in fondo a 300 metri Maidan e il palazzo dei sindacati, occupato, che ne è il cervello e il cuore. È il crepuscolo: nuota argenteo sui palazzi, barocchi e staliniani, l’ora dell’irrealtà, della disperazione, dei sogni. Che ondeggia tra il giorno e la notte.
La casa dei sindacati è il riassunto della rivoluzione, essa è ovunque, il palazzo vi sprofonda in essa. Ogni piano è un partito, un pezzo della rivolta. Il quinto è quello di Settore destro, i duri della Piazza, i nazionalisti. Molti, soprattutto i russi e il governo, dicono che sono fascisti pericolosi. Dapprima non vogliono farmi entrare. Hanno occhi duri, dicono: non mi frega nessuno. Uno gioca con una spada enorme, ragazze sdraiate su pagliericci si stirano assonnate e indifferenti. Eppure anche qui mi parlano di Europa: «Nazionalismo… fascismo. Se fossero la stessa cosa non ci sarebbero due parole diverse! Noi ucraini siamo europei prima ancora che nascesse il termine Europa! Cosa ha fatto l’Europa per noi, per difenderci, nel passato e ora? La Russia è un impero e la lotta contro l’impero è il primo dovere: ci minacceranno sempre. Forse abbiamo capito che, anche questa volta, dobbiamo contare solo su noi stessi…».