L’annuncio da parte del ministro della Difesa Pinotti dell’invio, a partire dal 2018, di un contingente di 140 militari italiani sotto l’egida NATO, per presidiare il confine russo della Lettonia, ha scatenato un’onda di polemiche. Da più parti si sono levate voci di protesta contro il governo Renzi accusato di avallare politiche da Guerra Fredda, dalla parte degli Stati Uniti.
Pochi si sono soffermati a riflettere sul fatto che la difesa dei Paesi Baltici, membri dell’Alleanza Atlantica dal 2004, è una risposta all’attivismo militare del Cremlino in quella zona. L’annunciato dislocamento di missili balistici Iskander nell’enclave russa di Kaliningrad, tra Lituania e Polonia, e le ripetute violazioni degli spazi aerei di Finlandia, Svezia e Paesi Baltici da parte di velivoli militari russi fotografano una realtà ben diversa rispetto a quella raccontata da molti opinionisti.
Le tensioni che interessano l’area baltica e in particolare la Lettonia, dove esiste una forte comunità russofona, nascono dal mutato quadro geopolitico scaturito dalla crisi ucraina. Per comprendere l’effetto domino innescato dal conflitto in Ucraina e i timori legati al neo-imperialismo russo in Lettonia occorre approfondire alcuni episodi della storia di questo Paese e sfatare alcuni miti della propaganda russa. Partiamo proprio da uno di questi, ossia la presunta russicità della Lettonia.
La Lettonia, storicamente e culturalmente, è un Paese in cui si compenetrano almeno quattro tradizioni: tedesca, scandinava, lituano-polacca e russa. Riga, la sua capitale, ben esemplifica questo crocevia. Fondata nel 1201 dai crociati tedeschi guidati dal vescovo Alberto, a partire dal 1282 aderisce alla Lega Anseatica. Alla fine del Sedicesimo secolo si sottomette alla corona polacca e nel 1629 è ceduta, assieme alla Livonia, al Regno di Svezia di cui diventerà la seconda capitale prima di cadere in mano russa nel 1710.
L’Ottocento segna l’inizio della rinascita storica della nazione lettone grazie al movimento dei Giovani Lettoni, primi rappresentanti di un’idea concreta di risorgimento nazionale. Ispirandosi alle lotte per l’indipendenza in Italia e in altre regioni europee, essi ritengono che sia giunto il momento anche per i lettoni di liberarsi dai popoli che li dominano, ossia russi e tedeschi.
Quando nel 1905 scoppia la rivoluzione che scuote tutto l’impero zarista, gli scontri in Lettonia vedono fronteggiarsi da un lato contadini e operai lettoni, dall’altro proprietari terrieri tedesco-baltici e milizie russe.ia Il 28 novembre l’Unione dei contadini e i socialdemocratici convocano un congresso nazionale lettone che proclama la Repubblica di Letton. Ma qualche giorno più tardi l’esercito russo ristabilisce in tutto il Paese l’autorità del governo di San Pietroburgo. Lo zar, per rasserenare gli animi, promette una costituzione e un’assemblea elettiva e consente agli autonomisti lettoni di far eleggere alla Duma quattro deputati, che premono per una riforma agraria, basata sull’esproprio dei latifondi dei baroni tedeschi; la proposta viene però respinta.
Con lo scoppio della Grande Guerra il governo russo, che dubita della lealtà dei baroni tedesco-baltici in caso di conflitto con la Germania, è costretto ad affidarsi alle forze lettoni per fermare l’avanzata dei tedeschi. Lo zar promette alla popolazione locale una vasta autonomia in cambio del sostegno alle operazioni belliche. I fucilieri lettoni combattono lealmente per tre anni sul fronte baltico, ma lo zar non tiene fede alla sua promessa. L’autonomia arriva solo nel 1917 con la “rivoluzione di febbraio” quando lo zar è costretto ad abdicare. Il governo provvisorio della Duma concede allora l’agognata autonomia alla Lettonia.
Ma la situazione è tutt’altro che stabile e l’indipendenza lettone deve fare i conti con l’occupazione tedesca di fine estate e più tardi con la Rivoluzione d’Ottobre. Il 18 novembre il Consiglio nazionale lettone si rifiuta infatti di riconoscere il nuovo potere bolscevico e proclama a Riga l’indipendenza della Lettonia, dando vita a un governo provvisorio affidato a Kārlis Ulmanis, leader del Partito lettone dei contadini. Il Paese si trova allora alla mercé di tre eserciti: quello tedesco che non ha ancora iniziato la sua evacuazione, quello sovietico costituito da ex fucilieri convertitisi alla causa bolscevica e quello dei difensori lettoni, i celebri aizsargi.
Il 3 gennaio 1919 l’Armata Rossa invade la Lettonia e conquista momentaneamente Riga. Le forze bolsceviche di Pēteris Stučka, che il 17 dicembre avevano formato un governo fantoccio di contadini e operai riconosciuto da Pietrogrado, vengono sconfitte nel maggio 1919 e il Paese torna in mano a Ulmanis che inizia finalmente a governare.
Dopo vent’anni di indipendenza, nell’estate 1940 la Lettonia viene invasa dall’Armata Rossa in seguito al Patto Molotov-Ribbentrop del 1939. I dodici mesi che intercorrono tra l’invasione sovietica (17 giugno 1940) e la prima grande deportazione di cittadini lettoni (14 giugno 1941) verranno ricordati come l’Anno del Terrore.
Nel luglio 1941 la Lettonia è occupata dai nazisti fino al 1944 quando sarà di nuovo invasa – liberata secondo la storiografia sovietica – dall’URSS. Nel saggio Terra Nera. L’Olocausto fra storia e presente lo storico Timothy Snyder spiega come nell’estate del 1941 i tedeschi giunti in Lettonia “si resero conto che le persone liberate dalla dominazione sovietica potevano essere indotte alla violenza per ragioni psicologiche, materiali e politiche”.
Come in Lituania, anche in Lettonia i tedeschi accompagnano il loro ingresso nel Paese con una campagna propagandistica in lingua nazionale di grande efficacia.
I giornali pubblicano raccapriccianti fotografie di prigionieri uccisi dall’NKVD e affermano che le vittime sono i lettoni e i colpevoli gli ebrei. Gli articoli e gli annunci radio in lingua lettone mettono in relazione il regime sovietico con gli ebrei e la liberazione con la loro eliminazione. In Lettonia i tedeschi che invadono il Paese baltico nel luglio 1941, spesso accolti come liberatori, trovano il modo di sfruttare, per i loro abbietti fini, tutte le risorse lasciate in eredità dalla precedente occupazione sovietica. L’arruolamento dei lettoni all’interno di un’unità di polizia che avrebbe lavorato per i tedeschi avviene grazie a una serie di annunci piuttosto vaghi nei quali non si accenna mai agli ebrei.
Molte reclute – ragazzi tra i sedici e i ventun anni, per lo più appartenenti alla classe operaia – sono lettoni i cui genitori erano stati, nei mesi precedenti, deportati nel Gulag dai sovietici. Snydner sottolinea che queste giovani reclute “non avevano idea che il loro incarico principale sarebbe stato fucilare gli ebrei”. Nel secondo dopoguerra la storiografia sovietica ha offerto una lettura distorta di quegli eventi estendendo, contro ogni evidenza empirica, il fenomeno del collaborazionismo all’intera popolazione lettone e occultando i tanti episodi in cui i giusti, come il portuale lettone Jānis Lipke, rischiarono la vita per mettere in salvo degli ebrei.
Il corollario della seconda occupazione sovietica in Lettonia è l’avvio, sin dal 1947, della collettivizzazione forzata dell’agricoltura e di una nuova stagione di deportazioni di massa.
Il potere politico è saldamente nelle mani di funzionari russi oppure di funzionari lettoni “russificati”. L’intensa opera di russificazione, che si somma alla fuga di massa nel 1944 di ben 120.000 lettoni che riparano all’estero, muta i rapporti percentuali tra le etnie e crea delle piccole enclavi russe in prossimità dei centri industriali, dove Mosca fa affluire masse operaie provenienti da Russia, Bielorussia e Ucraina Orientale. Un’interessante statistica riportata da Ralph Tuchtenhagen nel suo saggio Storia dei Paesi Baltici evidenzia come nel 1935, prima della duplice occupazione, i lettoni fossero il 76% della popolazione della Lettonia contro il 12% di russi, bielorussi e ucraini. Nel 1989, grazie alle politiche di industrializzazione forzata e di russificazione, i lettoni erano solo il 52% contro il 42% di russi, bielorussi, ucraini.
Oggi i rapporti percentuali sono mutati. Secondo dati ufficiali del 2011 i lettoni rappresentano il 62% della popolazione e i russi il 27%. Con il conseguimento dell’indipendenza il problema delle minoranze russe è stato frequentemente usato dalla Federazione Russa ai fini della propria politica estera. In Lettonia, dove si è stabilito che i cittadini lettoni sono coloro che vivevano nel Paese prima del 1940 e i loro discendenti, a partire dal 1994 è entrata in vigore una legge sulla cittadinanza che prevedeva una graduale ammissione di nuovi cittadini, suddivisi per gruppi di età, negli anni compresi dal 1996 al 2003.
In questo modo, entro il 2000, circa la metà dei 700 mila abitanti di lingua russa ha acquisito la cittadinanza lettone. Molti di essi hanno fatto questa scelta anche in ragione delle maggiori opportunità economiche offerte dal Paese rispetto alla Russia. Per alcuni la conoscenza della lingua, della storia e della costituzione lettone ha rappresentato invece un ostacolo. Una considerevole fetta della popolazione di lingua russa ha preferito lo status di apolide.
Nel 1998 la Lettonia, anche per evitare potenziali attriti con Mosca, ha modificato la legge sulla naturalizzazione abolendo il sistema della gradualità e ha concesso ai figli degli apolidi, purché nati in Lettonia dopo l’indipendenza, di ottenere la cittadinanza automaticamente qualora i genitori ne facciano richiesta. Secondo dati ufficiali del governo lettone del 2015 la percentuale di apolidi è scesa al 12% contro il 29% del 1995 e il 99% dei bambini nati in Lettonia lo scorso anno sono cittadini lettoni.
La più alta percentuale di russofoni, circa il 40%, si trova nel Latgale, regione che fa capo alla città industriale di Daugavpils. Ed è proprio in quest’area, l’unica del Paese che espresse parere contrario all’adesione alla UE, che si potrebbe replicare, con il pretesto della difesa dei diritti delle minoranze, uno scenario di guerra ibrida simile a quello del Donbas in Ucraina.
Sandra Užule-Fons, nel film documentario Il Poker Baltico. Qual è la strategia di Putin?, presentato al Forum Economico di Krynica, mostra come la presenza di minoranze russe nella regione baltica, in particolare nel Latgale – da cui la giornalista proviene – potrebbe costituire la giustificazione per un’aggressione da parte del Cremlino. Basterà la presenza delle forze NATO come deterrente?
Fonte : Massimiliano Di Pasquale per Stradeonline