Fonte : HuffPost
Due anni fa non c’erano i Gilet Gialli (che si preparano al sabato n.16 e non si sa mai come andrà a finire: la settimana scorsa è toccato a Clermont Ferrand, capoluogo dell’appartatissima Alvernia finire a ferro e fuoco) con tutte le loro teorie complottiste e le fake news diffuse a piene mani, ma all’Eliseo, nell’entourage di Macron (almeno quel pezzo che non ha abbandonato la nave, dall’ex ministro degli Interni Collomb al consigliere strategico Ismael Emelien al portavoce Sylvan Fort e tanti altri poco noti al pubblico italiano) ancora se lo ricordano.
Con un brivido di paura. Le MacronLeaks, quelle migliaia di mail scambiate durante la campagna elettorale e riversate a raffica sulla rete insieme con la fake news più grande e incredibile di tutte – Macron, l’ex banchiere di Rotschild titolare di un conto corrente off shore, di un tesoro segreto alle Bahamas – che l’abile Marine Le Pen avrebbe poi ricordato, insinuando, durante il famoso confronto televisivo che l’avrebbe comunque vista perdente, come si ricorderà, perché all’epoca l’onda nera (o gialla o giallo-verde, scegliete voi) del populismo non aveva tracimato dagli sbarramenti liberal-democratici della politica europea.
Oggi va molto peggio perché il sistema delle notizie false e della diffamazione sistematica via social si è, diciamo così, industrializzato e, per spiegarla con le parole del ministro degli Esteri, Jean-Yves Le Drian, (un politico di lungo corso che arriva dal partito socialista) è diventato una “specie di guerra fredda dell’informazione non meno pericolosa e insidiosa della vera Guerra Fredda, quella che per quasi mezzo secolo ha visto contrapposti i due imperi che si spartivano il mondo, Mosca e Washington”.
La differenza, fa notare il buon Le Drian, è che oggi Mosca e Washington sembrano stare dalla stessa parte, combattere la stessa battaglia contro l’Europa e le democrazie liberali del Vecchio Continente con lo zar Putin che considera la fabbricazione e la diffusione delle fake news “parte integrante delle strategie militari della Russia” (il giudizio è della Ong americana Freedom House che ha studiato tutti gli effetti del Russiagate nell’elezione di Trump, confermati oggi dallo stesso avvocato personale di Trump) e con l’ineffabile Steve Bannon, l’ideologo dell’estrema destra americana e per un periodo consigliere ascoltatissimo della Casa Bianca, che ha impiantato il suo nuovo quartier generale tra Bruxelles e Roma (e valgano a riprova gli incontri fin troppo affettuosi con Salvini e la Meloni) e sogna una rivoluzione populista, un’onda nera che travolga l’Europa e le sue democrazie.
Sono talmente preoccupati all’Eliseo e nel partito macroniano che il nuovo responsabile della campagna elettorale europea per la République en marche, Stephan Séjourné, ex-giovane socialista della nidiata Strauss-Khan, ha deciso di non accreditare Russia Today e Sputnik tra i media autorizzati a seguire il presidente nel Grand Tour elettorale che già si prepara (da metà marzo quando finirà l’altro tour, quello del Grand Débat che ha visto partecipare online e offline, cioè riempiendo diligentemente i Cahier de doléance approntati dai Comuni, più di un milione di francesi).
Non sono Russia Today e Sputnik media in senso stretto ma strumenti di propaganda, fa sapere la ministra per gli affari europei Nathalie Loiseau appena tornata dall’ennesimo viaggio nell’Europa dell’Est da cui ricava sempre un’impressione sconvolgente “nel senso” racconta all’Huffpost “di una caduta progressiva di quei costumi e di quei valori democratici che sono stati sempre alla base della libera informazione”.
“Ormai è guerra su tutta la linea” ricorda il responsabile della campagna elettorale macroniana, Séjourné, che come l’ex primo ministro repubblicano Jean-Pierre Raffarin (che ha fatto sapere di volersi schierare con Macron alle Europee), usa l’immagine delle fake news come missili che vengono sparati in continuazione contro un personaggio politico, un progetto, un accordo diplomatico, un trattato con l’obiettivo di demolire tutto e far emergere – come dice Bannon ma anche Marine Le Pen e tutta la schiera dei populisti – un’altra verità. Interessata.
Per esempio, il trattato di Aquisgrana, firmato il 22 gennaio scorso da Macron e dalla Merkel per rinnovare la collaborazione franco-tedesca (riconfermata da un altro summit pochi giorni fa), è diventato nella propaganda della destra lepenista e di tutta la Fasciosfera francese (che ha fortemente incistato il movimento dei Gilet Gialli) una resa dell’Eliseo pronto a consegnare – pensate! – l’Alsazia Lorena ai “nemici” tedeschi e a condividere con Berlino il seggio al Consiglio di sicurezza dell’Onu (ci ha creduto perfino il nostro presidente del Consiglio Conte che, dando fiato all’anti-macronismo del governo pentaleghista, ha voluto dire la sua sostenendo che quel seggio andrebbe condiviso, non s’è capito come, con l’Unione europea).
Continuando in questa galleria delle fake news, che saranno la vera arma di distruzione/distrazione di massa della prossima campagna europea, ecco il trattato di Marrakesh, il Global Compact dell’Onu sull’immigrazione firmato a dicembre da 150 Paesi che diventa, nella narrazione lepenista (salviniana e meloniana, per restare nel nostro piccolo italiano) il via libera all’immigrazione senza controllo, allo tsunami africano.
“È un modo per instillare dei veleni nei circuiti della democrazia perché questefake news arrivano a raffica e senza controllo sugli account social di milioni di francesi” denuncia il responsabile di En Marche! Stanislas Guerini. Andando così al punto chiave della questione: chi controlla, anzi chi può controllare questa valanga di false informazioni?
Il partito di Macron ha già creato una task force di una dozzina di esperti informatici ma è chiaro che si tratta più di una testimonianza, di un segnale di resistenza politica che di uno strumento tecnicamente efficace.
Il direttore della campagna, quel Séjournè già citato, ha inviato una lettera preventiva all’Agence nationale de la securité des systèmes d’information ma anche alla Dgse, la Direction générale du reinsegnement extérieur, insomma il controspionaggio francese per avere garanzie che potenze straniere (leggasi: Russia e Stati Uniti) non sconvolgano a colpi di “troll” la competizione elettorale.
Probabilmente non esagera se perfino la commissaria europea alla giustizia, la ceca Véra Jourova, è costretta a riconoscere pubblicamente che il rischio di ingerenze e manipolazioni non è mai stato così alto.
Il problema è, semmai, come fermare, con quali strumenti giuridici, sia l’assalto dei troll (e qui vale la pena ricordare che a San Pietroburgo è attiva l’Internet research agency, una vera e propria fabbrica di fake news con migliaia di hacker al lavoro) sia la diffusione di pubblicità elettorale di misteriosissima provenienza veicolata sulle piattaforme dei giganti del web, Facebook, Twitter, Google e bloccare questi ultimi, ammette la commissaria europea al digitale Mariya Gabriel, non è proprio semplicissimo.
Nella primavera scorsa, la Commissione Junker aveva pubblicato un documento che conteneva una serie di disposizioni per garantire un “ecosistema informativo trasparente, credibile e responsabile” costruito sul principio dell’autoregolamentazione dei giganti di Internet (troppo grandi per accettare di essere controllati da autorità esterne).
In questi giorni è entrato in servizio il Social Observatory for misinformation and social media analysis (Soma) con il compito di redigere un bollettino settimanale sulle fake news (Disinformation Review) e un budget di un milione di euro. Ma con queste risorse e con queste regole non potrà fare altro che segnalare con il bollino “pagato da” le pubblicità politiche, diciamo, più scorrette.
Sembra un giochino di società: la Commissione europea invita i colossi del web al rispetto della trasparenza e questi si dicono pronti a essere rispettosi. Solo che la vera guerra delle fake news alle prossime Europee non sarà come un duello tra gentiluomini ma un conflitto senza quartiere. All’Eliseo lo hanno capito.