Uno studio dimostra che il Cremlino non ha preferenze, non sostiene partiti o candidati. La sua strategia punta a creare confusione
Davvero Putin ha appoggiato la Brexit perché preferisce un Regno Unito fuori dall’Unione europea? Davvero preferiva Trump alla Casa Bianca al posto di Hillary Clinton? Davvero sta puntando ormai sulla destra radicale e sovranista europea piuttosto che sui residui di una sinistra che ha ancora reminiscenze filorusse? In realtà, non è così. La sua “Scommessa Prometeica” è semplicemente quella di creare in occidente il caos, per impedirgli di “accerchiare la Russia”. Un caos per il caos. Anche al costo di creare situazioni che potrebbero ritorcerglisi contro.
E’ questa la tesi di “Chaos as a strategy. Putin’s ‘Promethean’ Gamble”, un rapporto appena uscito a cura del Cepa, Center for European Policy Analysis: un think tank con sede a Washington che si occupa di Europa occidentale e Russia. Uno dei due autori è Donald N. Jensen: resident fellow al Center for Transatlantic Relations alla Nitze School of International Studies della Johns Hopkins University, e commentatore per Cnbc, Fox Business e Voa Russian Service. L’altro è Peter B. Doran: vicepresidente del Cepa; collaboratore di Foreign Policy, Defense News, National Review e American Spectator; commentatore per Fox News, Wall Street Journal e Newsweek. La loro tesi: “I leader del Cremlino si ritengono parte di una grande competizione globale per il potere in cui devono fronteggiare gli Stati Uniti e l’Europa. Per compensare il declino interno nel lungo periodo, il Cremlino tenta – talvolta incautamente – di assumersi dei rischi internazionali per bilanciare la sua relativa debolezza di fronte alla relativa forza dell’Occidente”. “il Cremlino sta cercando di compensare il suo indebolimento in patria lanciandosi in una strategia competitiva in cui vincerà la parte che meglio riuscirà a gestire il disordine”.
Il problema della Russia è che da una parte Putin si è lanciato in una strategia di restaurazione della sua potenza di tipo “Termidoriano”, che infatti rivaluta le glorie militari del passato, anche dei tempi di Stalin. Dall’altra i dati del paese non sono però positivi. Popolazione in declino, problemi sociali cronici, competitività economica in calo, dipendenza dai cicli delle materie prime con relativa “sindrome olandese”, persistenza di una corruzione istituzionalizzata costringono la Russia a pensare soprattutto in termini di mera sopravvivenza. In questo quadro, le “Rivoluzioni colorate” che con il XXI secolo hanno iniziato a verificarsi nelle ex-repubbliche sovietiche e poi anche le Primavere arabe sono state percepite come una aggressione dell’occidente. E la risposta è stata non solo nelle campagne militari che appunto hanno “punito” Ucraina e Georgia e nell’intervento in Siria, ma appunto in questo tipo di controffensiva. “La sopravvivenza è il fine, il caos è il mezzo”.
Nel 2013 Gerasimov scrive un articolo per il “Military-Industrial Kurier” in cui analizza i cambiamenti delle strategie di guerra occidentali a partire dal 1991, osservando che gli strumenti non militari – politici, economici, informativi e umanitari – sono ormai in proporzione 4 a 1 rispetto agli strumenti militari: e su questi ultimi prendono il sopravvento le operazioni clandestine e di Forze speciali, limitando in pratica l’uso dello strumento militare classico al peace-keeping. Un successivo dibattito si sforza di comprendere se Gerasimov voglia suggerire di imitare gli occidentali, o stia semplicemente suggerendo di rispondere loro rispolverando metodi tradizionali. Ma l’anno dopo il tipo di strategia ibrida delineata viene spiegato nella pratica attraverso l’attacco all’Ucraina in risposta alla rivoluzione di Euromaidan. È una combinazione di diversi strumenti, in risposta a una “destabilizzazione” attraverso forme di influenza ideologica.
Le rivoluzioni colorate secondo l’analisi russa partono da uno sforzo dell’occidente per persuadere della superiorità del proprio sistema politico: un po’ come faceva anche l’Urss durante la Guerra Fredda. Invece l’attuale guerra di informazione putiniana non mira a convincere, ma a confondere. Un bombardamento di fake news e notizie alterate provenienti da media ufficiali come RT o Sputnik, da troll su Internet o da “false flags” puntano ad esempio a convincere i paesi baltici che gli Stati Uniti vogliono abbandonarli o gli ucraini che l’occidente vuole fare incetta di terre. In Romania vengono sfruttati, aizzati e anche creati risentimenti antioccidentali, in Polonia antiucraini, in Lituania le divisioni sulla politica energetica, nell’Ue la crescente insofferenza contro la “eurocrazia” e gli immigrati.
Gli autori del report non credono tuttavia che la Russia possa aver significativamente influito sull’elezione di Trump. In compenso, il modo in cui l’attività degli hacker del Cremlino è riuscita a creare polemica enfatizza uno degli aspetti per il quale il caos può ritorcersi contro Putin. Più in generale: “L’uso della disinformazione da parte della Russia erode la fiducia che altri paesi o leader potrebbero riporre nella loro relazione con la Russia e con Putin personalmente”. Il risultato sarebbe un escalation di tensioni dalle quali per il Cremlino sarebbe impossibile tornare indietro.