Fino a ieri si sognava l’arrivo di un mondo di libertà globale al grido “se Solzhenitsyn avesse avuto Facebook”. Ora ci si chiede con sgomento cosa avrebbe potuto fare Goebbels con un account Twitter in mano.
Fonte : Rolling Stone di Anna Zafesova
Ed ecco a voi il troll russo, il nuovo tormentone dell’estate insieme al caldo, al razzismo e ai vaccini. Si nasconde in ogni PC e smartphone, parla tutte le lingue e conosce in minuzioso dettaglio il contesto politico di ogni Paese del mondo, intervenendo in tutte le lingue, in tempo reale, nei dibattiti e nelle crisi dall’Australia a Milano. E’ lui (o lei) che posta video sul Brexit, meme contro gli africani, fake news su Hillary e appelli per le dimissioni di Mattarella, battendo instancabilmente sulla tastiera in qualche anonimo ufficio di Pietroburgo. Basta stanarlo grazie all’FBI e alla polizia postale, e tutto tornerà alla normalità, la democrazia trionferà e i diritti umani e civili saranno al sicuro.
Il troll russo è il nuovo cattivo perfetto, invisibile e onnipotente al punto da decidere l’esito delle elezioni americane. Chi si permette solo un emoticon di scetticismo viene bollato subito come complice di Putin, normalmente dagli stessi media e dagli stessi politici che quattro anni fa – quando i troll russi fecero la loro prima massiccia comparsa sul web internazionale, per difendere la Russia che invadeva l’Ucraina – snobbavano le denunce sulle fake news made in Russia come propaganda antiputiniana (magari finanziata da Washington o da Soros). Ora è argomento di studio di magistrature, commissioni parlamentari e università di tutto il mondo, e stanno apparendo le prime “pistole fumanti”, come il rapporto sugli account collegati alla “fabbrica dei troll” di Pietroburgo, o l’indagine della polizia postale italiana sugli account della campagna Twitter per l’impeachment di Mattarella.
Premesso anche che si riuscirà ad arrivare fino in fondo, superando la barriera dei proxy server, dei VPN geolocalizzati nelle West Samoa e di altri trucchi informatici, il risultato potrebbe essere deludente. La mole dei tweet che lo stesso social network ha identificato e sospeso perché legati alla propaganda proveniente dalla Russia appare impressionante: quasi 3 milioni nell’arco di quasi cinque anni. Esattamente quanto passa su Twitter in dieci minuti di una giornata qualunque. Senza per di più essere troppo efficaci: dalle statistiche appare che la maggior parte dei post attribuiti ai troll russi cade nella fossa comune della maggioranza dei tweet, con un numero di retweet pari a zero. E le tracce degli account della campagna contro Mattarella ora sembrano portare non a Mosca, ma a Milano, dove ha sede la Casaleggio Associati, mentre le indagini parlano di retweet a opera di utenti italiani “ignari” di aver interagito con i troll russi. Ai quali comunque, ignari o meno, hanno replicato con entusiasmo.
Ora, è vero che tutti i guai, dal plutonio al mitico freddo del “Burian”, vengono sempre dalla Russia, ma il problema è che anche se e quando si riuscirà a identificare e bloccare il troll russo, resteranno gli utenti magari “ignari” delle loro interazioni, ma molto consapevoli di quello che pensano, scrivono e votano. Li abbiamo tutti nei nostri feed, twittano e likano su tutto – contro i vaccini e il papà della Boschi, a favore dei “grandi leader” Trump e Putin, discutono le unghie smaltate delle migranti e lo stipendio dell’inesistente cugino della Boldrini – ma hanno anche un nome e cognome, gatti e figli, vanno al ristorante e in vacanza. Non sono bot, sono persone vere. Che sono state in molti casi spronate o provocate da fake prodotti intenzionalmente da propagandisti, russi e non, ma hanno abboccato subito, e volentieri, e vanno tutto il giorno in cerca di altri post da “kondividere”. I troll sono tra noi, e darne la colpa ai russi, agli arabi o ai marziani è un po’ fare la mamma del serial killer che va ai talk show per accusare le cattive amicizie del figlio, che era “così un bravo ragazzo, sempre gentile e salutava i vicini” mentre collezionava cadaveri in cantina.
I troll pietroburghesi, che battono sui tasti per 12 ore al giorno in cambio di circa 700 euro mensili pagati da Evgheny Prigozhin, il “cuoco di Putin” che come secondo hobby gestisce anche la compagnia di contractor che combatte le guerre del Cremlino, hanno brevettato e portato su scala industriale quello che milioni di utenti già facevano, e continuano a fare, di propria spontanea volontà, e gratis. E, sorpresa, si sentono anche loro vittime delle fake news: basta leggere i feed dei fan di Trump (che oltretutto ha esattamente la metà dei follower di Obama, altra sorpresa) per vedere che si sentono vittime di un establishment che comprende governi, servizi segreti, case farmaceutiche, media tradizionali, Hollywood e perfino gli stessi Facebook e Twitter che hanno dato loro voce e identità. Per molti di loro la politica è un hobby, o un’ossessione, come lo sport, il giardinaggio o i giochini online, e postano inni a Trump, Erdogan, Putin o Salvini con la stessa frequenza con la quale chiedono agli amici di mandargli una mucca su Farmville.
Non producono praticamente contenuti propri, si limitano a diffondere post preconfezionati, che sia per insultare i musulmani, per fare gli auguri di compleanno alla sorella o per raccontare una barzelletta. Sembrano quasi dei troll, ma sono persone vere. Spesso con disagi veri, e spesso senza strumenti per affrontarli. A volte sono soltanto dei disturbatori o dei disturbati, di quelli che nessuno vorrebbe avere come vicini, colleghi o suoceri, e che nel mondo dei social trovano la libertà che il mondo reale non gli concede. Ma milioni di loro non sono vittime di nessuno, né della Bilderberg, né dei troll russi: pensano veramente quello che scrivono. Gli appelli all’impeachment di Mattarella possono essere stati lanciati in un’azione organizzata da qualche centinaio di account Twitter creati in 5 minuti con mail false, come anche i più recenti post di auguri di compleanno al premier Conte, ma le migliaia di persone che li hanno ripostati non sono russi. Matteo Salvini e Paola Taverna non sono ologrammi proiettati da Pietroburgo, anche se sarebbe bello pensare che fosse sufficiente mettere un antivirus per rimuovere il malware dal sistema.
La meravigliosa capacità dei social network di creare tempeste in un bicchiere d’acqua è una risorsa nuova e pericolosissima. Molti pensavano che con l’arrivo della radio il mondo, potendo parlarsi in tempo reale, non avrebbe più visto guerre, ma pochi anni dopo si scoprì che l’invenzione di Marconi rendeva la guerra molto più efficiente. Ora è il turno di Internet di aprire orizzonti impensabili nelle direzioni più impensabili. Gli stessi video falsi sui migranti – con gli stessi slogan del tipo “il governo vuole l’invasione per sostituire la razza bianca con i meticci seguendo il piano di Soros” – girano sui social di tutti i Paesi, cambiano solo i colori delle facce degli “invasori”. Anche se ci fosse una centrale unica che li produce e li diffonde, sgominarla come una novella Spectre purtroppo non risolverebbe il problema, lasciando le democrazie a gestire milioni di loro concittadini che ne condividono le idee, false o meno. I no-vax che non hanno capito nulla nemmeno del corso scolastico di biologia, i razzisti che credono che un terzo della popolazione italiana sia composta da immigrati (confondendo regolari e clandestini, profughi e braccianti, rom e romeni, senza mai guardare i dati dell’Istat, la carta geografica e i congiuntivi), i difensori della democrazia diretta che si appellano alla Costituzione più bella del mondo senza sapere che in Italia il governo viene eletto dal parlamento e non dagli elettori: sono tutti stati formati dalle nostre scuole, dalle nostre famiglie, dai nostri media. Da noi.
La vera scoperta fatta grazie ai social media è che rimaniamo molto diversi, e che all’interno di società che si consideravano tutto sommato coese, omogenee e accomunate dagli stessi valori milioni di cittadini non hanno in comune quasi nulla: il modo di pensare, mangiare, relazionarsi al prossimo, soprattutto se di un altro sesso, razza o cultura, diverge fino agli estremi opposti. La “fine della storia” teorizzata con il crollo del Muro da Francis Fukuyama, si basava sull’assunto che, venuta meno la potenza che voleva la distruzione della democrazia e del mercato, l’umanità non avrebbe più vissuto conflitti maggiori. Ora si scopre che i “sovietici” vivono accanto a noi, dentro di noi, che sono noi, e pensare che basterebbe tutelarli da infiltrazioni straniere significa ridursi a un tribalismo trumpian-salviniano, dove i nostri sono migliori perché sono nostri, o all’arroganza gauche che tratta il “popolo” come dei bambini da proteggere dalle caramelle degli sconosciuti.
Il pericolo dei troll russi è che cavalcano e manipolano l’opinione pubblica senza i vincoli e le inibizioni imposti da una democrazia, esattamente come lo facevano i loro predecessori comunisti sovietici. Possono essere, con una certa fatica, afferrati per mano, e incriminati perché svolgono un lavoro dai contenuti precisi per conto di una potenza straniera, e probabilmente l’introduzione di nuove leggi e regole che ne proibiscono o ne limitano l’attività è questione solo di tempo. Resta da capire cosa fare di chi svolge la stessa attività all’interno del proprio Paese, negli interessi di un partito o di un candidato, o magari anche gratis e pensando di fare la cosa giusta. Un tempo non lontano gli idealisti del liberalismo sognavano l’arrivo di un mondo di libertà globale al grido “se Solzhenitsyn avesse avuto Facebook”. Ora si chiedono con sgomento cosa avrebbe potuto fare con un account Twitter in mano Goebbels.