Ospitiamo con piacere un articolo di Massimiliano Di Pasquale pubblicato su StradeOnline
Se non si corresse il rischio di far torto al suo indiscutibile talento visionario – forse ereditato dall’odiatissimo padre, il bianco Mikhail Osipovich, geniale architetto della Riga Jugendstil di inizio Novecento – si potrebbe considerare Ottobre di Sergei Eisenstein un’operazione per certi versi simile a Ukraine on Fire, lo pseudo-documentario sponsorizzato dal Cremlino, in cui Oliver Stone, distorcendo la realtà dei fatti, presenta il Maidan di Kyiv come un complotto di CIA e nazisti.
Ottobre, pellicola commissionata dal regime bolscevico per celebrare il decimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre e ispirata al libro di John Reed I dieci giorni che sconvolsero il mondo, è un film che, al di là del suo sperimentalismo tecnico, si basa su un falso storico: quello del popolo armato e furioso che assalta il Palazzo d’Inverno dando inizio alla gloriosa Rivoluzione.
Come ha sottolineato la slavista Serena Vitale, la scena, ritratta da Eisenstein ed entrata nella memoria collettiva, della folla che assalta la residenza dello zar Nicola II a Pietrogrado è assolutamente falsa. La Vitale in una recente intervista spiega che “al Palazzo d’Inverno quel giorno i portoni erano aperti, perché i guardiani si erano dimenticati di chiuderli. E la folla in realtà era un manipolo di marinai, qualche contadino e i rappresentanti dei soviet, più una piccola adunata di passanti che per prima cosa, una volta entrati a Palazzo, si diressero verso le cantine e si ubriacarono come matti”. Una realtà assai diversa da quella immortalata in una pellicola che enfatizza un episodio – la presa del Palazzo d’Inverno – finanche marginale all’interno della lunga e complessa cronologia del 1917.
L’Ottobre fu essenzialmente un colpo di mano, ma come ha scritto Andrea Graziosi neLa Russia di Lenin e Stalin, saggio uscito nel 2007, “ciò non toglie nulla alla sua importanza e non deve oscurare il tacito appoggio di cui godette in una parte importante del paese.” La rivoluzione russa del 1917, probabilmente l’evento più importante della storia del secolo scorso, sembra peraltro arricchirsi di nuovi particolari ogni qual volta se ne celebri un anniversario per così dire “tondo”.
Non è un caso che l’ampia letteratura disponibile in Italia si sia ampliata di contributi di notevole momento proprio dieci anni or sono, in concomitanza col novantennale. Oltre al già citato volume di Graziosi occorre ricordare l’illuminante libro di Vittorio Strada La rivoluzione svelata. Una lettura nuova dell’Ottobre 1917, seguito ideale diAutoritratto autocritico. Archeologia della rivoluzione d’ottobre (2004). Quest’anno, in occasione del centenario, la Della Porta Editori pubblica due interessanti opere del sovietologo Ettore Cinnella, La rivoluzione verso l’abisso e La rivoluzione russa in 100 date. Tutti questi volumi, pur nella diversità di approccio e contenuti, si caratterizzano per il sostanziale contributo offerto nel chiarire aspetti cruciali della rivoluzione e nel confutare le tante vulgate che ancora oggi la circondano impendendone una corretta comprensione.
Consapevole della vastità e della complessità del tema trattato, cercherò di enucleare alcune questioni a mio avviso meritevoli di approfondimento.
Partirei proprio dal libro del giornalista americano John Reed, I dieci giorni che sconvolsero il mondo, un testo che, come scrive Vittorio Strada, “pur con tutta la sua immediatezza, resta il primo esempio della mitizzazione del rivolgimento d’ottobre”.Questo reportage, basato solo su fonti bolsceviche, approvato dallo stesso Lenin che vi riconosceva una visione degli eventi conforme alla sua, godette di grande popolarità nonostante, proprio per l’unilateralità delle fonti, non cogliesse affatto la complessità storica di ciò che stava avvenendo in Russia.
Per comprendere la rivoluzione bolscevica occorre non solo studiare gli eventi che interessarono la Russia dal febbraio 1917 – quando democratici, liberali e socialisti cacciarono lo zar – all’ottobre dello stesso anno, ma tornare ai moti che attraversarono l’impero nel 1905.
Se è vero che in Occidente la rivoluzione di febbraio – come afferma lo scrittore e giornalista russo d’ispirazione liberale Mikhail Zygar – è poco conosciuta e andrebbe riscoperta perché “per sei mesi in Russia esistette, se non proprio una repubblica democratica, almeno l’idea di una repubblica democratica”, ancora meno nota e studiata è quella del 1905. “Nella pubblicistica bolscevica e sovietica – sostiene Ettore Cinnella – è stata sempre forte la visione del 1905 come prova generale del 1917, ma non è affatto così”. Lo storico italiano, autore di un libro intitolato 1905. La vera rivoluzione russa, afferma che l’unica rivoluzione che avrebbe potuto cambiare il corso della storia in Russia, avvicinandola all’Europa, è proprio quella del 1905.
“La rivoluzione del 1905 è lo sbocco di un processo di occidentalizzazione del paese. Si dice sempre che Pietro il Grande occidentalizzò la Russia. Non è affatto vero, quella fu una occidentalizzazione di facciata. Fu solo nel 1905 che la società russa cercò di liberarsi dalle catene dello zarismo e per la prima volta tutti i ceti sociali, dagli insegnanti ai medici fino ai contadini, agli operai e alle nazionalità all’interno dell’Impero fecero sentire la loro voce”. Tutte le forze politiche attive in quegli anni in Russia – marxisti, liberali, populisti – si ispirano al mondo occidentale. E la stessa cosa avviene nella cultura.
Tesi questa che trova concordi anche Serena Vitale e Mikhail Zygar. Scrittori russi come Pasternak, Mandelstam, Esenin, per anni associati all’intellighenzia bolscevica, si formarono in realtà tra fine Ottocento e inizi Novecento.
Per Cinnella il 1917 non è dunque una continuazione del 1905, piuttosto un prodotto della guerra: basti pensare al ruolo determinante giocato dai soldati – il generale russo Brusilov parlò a tal proposito di ‘bolscevismo di trincea’ – e alla posizione delle forze liberali rispetto al conflitto bellico. “Nel 1905 i liberali di sinistra auspicavano la sconfitta della Russia nella guerra contro il Giappone per ridurre a più miti consigli la monarchia zarista. Nel 1917 c’è invece il furore nazionalistico dei partiti liberali e dei ceti borghesi a cui si oppone l’odio per la guerra delle masse popolari”.
Tra le principali cause del fallimento della rivoluzione democratica di febbraio, che sfociò poi nel colpo di mano bolscevico in ottobre, c’è sicuramente l’ideologia legalitaria dei governi provvisori, il cui continuo rinvio dell’Assemblea Costituente finisce per esacerbare lo scontento nelle campagne. Emblematico quanto scrive Andrea Graziosi: “La paralisi dei moderati era aggravata dalla loro ideologia legalitaria e dai loro buoni sentimenti, poco adatti ai tempi, che li avevano portati, nel caos generale, ad abolire la pena di morte per diserzione, a non reprimere con la dovuta fermezza i nascenti estremismi e a non prendere decisioni risolute”.
L’illusione legalitaria di liberali e socialisti favorisce la nascita di un sommovimento popolare anche nelle campagne, che verrà cavalcato da Lenin e dai suoi.
La rivoluzione di Ottobre – sottolinea ancora Cinnella – non è affatto una rivoluzione socialista che fa leva sulla coscienza di classe, bensì la più grande rivoluzione plebea della storia russa, qualcosa di assimilabile alla rivolta di Pugachev del 1773. L’abilità di Lenin sta nell’intuire la grande forza d’urto di questo movimento e nell’usarlo ai fini del conseguimento del potere, salvo poi reprimerlo, qualche mese più tardi, con una ferocia inaudita.
“Alla base della vittoria bolscevica c’è il grande sommovimento plebeo. È questo il senso profondo dell’autunno 1917. Lenin crede di dominare il mondo popolare, in realtà non lo conosce e non ne viene travolto perché lui e il suo partito sono dotati di una ferocia e di una determinazione eccezionale. Riusciranno a vincere a costo di perdite umane infinite e di una sanguinosissima guerra civile che non è solo contro i bianchi ma contro gli altri partiti socialisti, il movimento popolare, i contadini, in definitiva contro tutti quelli che non sono bolscevichi.”
Maksim Gorkyi, che in seguito diventerà uno dei principali collaboratori di Stalin, fu peraltro tra i primi ad analizzare con lucidità l’abisso in cui Lenin stava facendo precipitare la Russia. In una serie di articoli, riuniti sotto il titolo di Pensieri intempestivi, evidenzia prima il grave rischio che avrebbe comportato affidarsi per la presa del potere a una folla disorganizzata sotto la cui copertura avrebbero agito “avventurieri, ladri, assassini di professione”, poi, a golpe avvenuto, stigmatizza il vergognoso atteggiamento di Lenin, Trotskyi e dei loro sodali “verso la libertà di parola, verso la libertà dell’individuo e tutto l’insieme di quei diritti per il trionfo dei quali si è battuta la democrazia”.
Non è facile a distanza di cento anni fare il punto sull’eredità di Lenin. Per gli ucraini, memori della lezione di Grossmann che in Tutto Scorre individua nel leader bolscevico un precursore delle politiche genocidarie di Stalin, è indubbiamente una figura nefasta associata all’imperialismo sovietico. Più complessa la questione per il popolo russo, da sempre poco propenso ad analizzare in chiave critica il proprio passato. L’impressione, tuttavia, è che nella Russia odierna, che ha riabilitato in chiave imperialista la figura di Stalin e l’autocrazia zarista, non ci sia alcun posto per il leader di un movimento, quello bolscevico, che ha distrutto la monarchia zarista e perseguitato la Chiesa ortodossa, oggi bastione imprescindibile del regime putiniano.