Pochi sanno che il film “Fuga per la vittoria” trae origini da una partita di calcio realmente giocata a Kiev nel 1942 allo stadio Zenit. Ma pochi sanno che le diverse versioni leggendarie prodotte fanno parte della propaganda sovietica che prese alcune cose vere e ne costruì una storia attorno. E’ un ottimo esempio di manipolazione della storia e abbiamo preso spunto da un’ottimo articolo del sito minutosettantotto a firma di Edoardo Molinelli per illustrarne le modalità.
A riprova di ciò va detto che dove sorgeva lo stadio Zenit attualmente è una zona abbandonata ed esiste solo una vecchia lapide che ricorda la partita. Una cosa strana in quanto se questa partita fosse stata realmente giocata con le modlaità che ci ha proposto la propaganda ne avrebbero fatto una specie di tempio.
Il portiere, in maglia blu, avanza verso il pallone posato sul dischetto. L’altro, quello che dovrà tirare, indossa una maglia nera con un’aquila sul petto. I due si guardano per alcuni, lunghissimi secondi. Il portiere ha uno sguardo duro, l’altro palesemente se la fa sotto. L’arbitro fischia: tiro a mezz’altezza sulla sinistra del portiere, che vola e blocca il pallone. Partita finita, festa grande, invasione di campo e fuga dei giocatori in maglia bianca.
È la scena finale di uno dei più celebri film sportivi di ogni tempo, Fuga per la vittoria, girato nel 1981 da John Huston con la partecipazione di calciatori del calibro di Pelé, Bobby Moore, Osvaldo Ardiles, John Wark, Kazimierz Deyna, Paul Van Himst e Mike Summerbee. Come molti sanno, il film di Huston è ispirato a una vicenda della Seconda Guerra Mondiale rimasta oscura per molto tempo: la cosiddetta “Partita della morte”, giocata in Ucraina tra la formazione locale della Start e i nazisti del Flakelf. Una partita divenuta leggenda, durante la quale gli ucraini decisero di non piegare la testa e, nonostante fossero stati avvertiti di dover perdere, vinsero lo stesso; ciò portò i tedeschi a una vendetta in piena regola, alla quale riuscirono a scampare solo tre dei giocatori della Start.
La Partita della morte è diventata nel corso degli anni un esempio celeberrimo di valore, dedizione e amore per la libertà, così paradigmatico da scadere perfino nel patetico, per lo meno leggendo alcuni articoli ad alto tasso glicemico. C’è solo un piccolo particolare che sfugge ai più: la versione che spesso viene spacciata per buona è in realtà un falso in piena regola. Il risultato della distorsione della propaganda sovietica, delle paure dei veri protagonisti della partita e della mancanza di metodo storiografico. Nonostante la leggenda della Partita della morte sia stata confutata da tempo, innanzi tutto da giornalisti e storici ucraini, il suo alone mitico resiste e continua a propagarsi, nonostante i tentativi di chi vuole riportarla su binari più consoni.
Il grande storico francese Marc Bloch scrisse: “Le notizie false della storia nascono certamente spesso da osservazioni individuali inesatte o da testimonianze imperfette, ma questo infortunio iniziale non è tutto e in realtà in se stesso non spiega nulla. L’errore si propaga, si amplifica e vive solo a una condizione: trovare nella società in cui si diffonde un brodo di cultura favorevole. In quell’errore, gli uomini esprimono inconsciamente i propri pregiudizi, odi e timori, cioè tutte le loro forti emozioni. Soltanto […] dei grandi stati d’animo collettivi hanno poi la capacità di trasformare una cattiva percezione in una leggenda”.
Il caso della Partita della morte ci dice molto non solo dei meccanismi della propaganda o del processo di costruzione della storia, ma anche della nostra natura di esseri umani. Perché l’uomo preferirà sempre un racconto romantico e romanzato alla nuda descrizione dei fatti. E il compito di chi racconta, si tratti di uno storico, di un giornalista o di un semplice narratore, è di cercare sempre la verità, per quanto arida possa apparire.
La leggenda della “Partita della morte”.
Estate 1942. L’Ucraina è occupata dalle truppe di Hitler, il fronte è lontano, le azioni partigiane scarse e isolate. I soldati del Reich si annoiano. Ma un giorno qualcuno fa una scoperta: nel campo di concentramento, tra i vari prigionieri di guerra, ci sono dei calciatori che lavorano nel panificio. Gente forte, professionisti; quasi tutti ex giocatori della Dinamo di Kiev, pochi altri del Lokomotiv. Ai tedeschi viene un’idea: quale mezzo migliore di una partita di calcio per distrarre le truppe? Detto fatto, la partita viene organizzata e si gioca a metà luglio. La Start, questo il nome scelto dagli ucraini, sorprende tutti e vince per 5-1. I nazisti non possono accettarlo. Loro rappresentano la razza ariana, sono i dominatori del mondo. Serve una rivincita, che viene immediatamente apparecchiata. Il 9 agosto la Start torna in campo, ma stavolta ha di fronte un avversario diverso: il Flakelf è infatti formato da ufficiali della Luftwaffe selezionati per capacità tecniche e fisiche. Il meglio che l’esercito tedesco possa offrire, insomma. Gli ucraini, invece, sono denutriti, stanchi per il lavoro e non allenati. Il risultato sembra già scritto.
Il giorno della partita Kiev è deserta. Il caldo è atroce e rende ancor più improba l’impresa a cui sono chiamati i giocatori della Start. Nessuno dice loro cosa devono fare, ma i segnali sono chiari fin dall’inizio: il Flakelf si cambia negli spogliatoi dello stadio Zenit, loro in una baracca; l’arbitro è un ufficiale delle SS; e sugli spalti, tolti vecchi e bambini di Kiev reclutati a forza, ci sono solo soldati della Wehrmacht, alcuni dei quali appostati dietro le micidiali mitragliatrici MG42, le “squartatrici di Hitler”. Uno scenario da incubo. Prima di entrare sul terreno di gioco, l’arbitro si avvicina agli ucraini e “suggerisce” loro di omaggiare l’esercito occupante con il saluto nazista. Ma quei ragazzi hanno deciso che la trama già scritta della partita dev’essere ribaltata: entrano, si stringono l’uno all’altro e, al momento di salutare, portano il braccio al petto e gridano all’unisono “Fitzcult Hura!” (“Viva la cultura fisica”, motto tradizionale degli atleti sovietici). In campo i tedeschi picchiano come fabbri, autorizzati palesemente dal direttore di gara; gli ucraini invece non possono né fare fallo né reagire agli insulti e alle provocazioni, e per tenerli in riga i nazisti ricorrono addirittura a qualche scarica di mitragliatrice diretta ai loro piedi. A fare le spese del gioco duro, tra gli altri, vi è il portiere Trusevich, che viene colpito alla testa e perde conoscenza. Quando si rialza riesce a stento a stare in piedi da solo, e appena il gioco riprende viene superato da un tiro da fuori. 1-0 per il Flakelf. Agli attaccanti ucraini non va meglio: se per caso riescono a resistere alle cariche e alle entrate avversarie, ci pensa il direttore di gara a stoppare le loro iniziative ricorrendo al fuorigioco. Kuzmenko, un mediano, decide allora di fare tutto da solo. Parte palla al piede, arriva ai 30 metri e a quel punto, invece di cercare le punte, lascia partire un bolide che batte il portiere del Flakelf: 1-1. Ma non è finita, perché il follettoGoncharenko, piccolo, tecnico e imprendibile, si inventa una doppietta con due tiri da fuori, sempre per evitare la chiamata del fuorigioco, e manda le squadre all’intervallo con la Start avanti 3-1.
Gli ucraini siedono nel loro spogliatoio improvvisato. Sorridono, forse scherzano tra loro; di certo sono soddisfatti per quel risultato. D’un tratto la porta si apre e appare un ufficiale delle SS con un interprete. Guarda i giocatori negli occhi, uno per uno, quindi dice loro queste testuali parole: “Siamo veramente impressionati dalla vostra abilità calcistica e abbiamo ammirato il vostro gioco del primo tempo. Ora però dovete capire che non potete sperare di vincere. Prima di tornare in campo, prendetevi un minuto per pensare alle conseguenze”. Non ha un tono minaccioso, tutt’altro, ma il significato del suo discorso è chiarissimo.
Una volta rientrata in campo, la Start tira i remi in barca. Il Flakelf si porta velocemente sul 3-3 e sembra poter aggiudicarsi facilmente la vittoria. Ed è allora che gli ucraini capiscono di non poter piegare la testa. Hanno perso la guerra, la loro città è in rovina e la salvezza un miraggio, ma in quel preciso momento, sul campo di calcio, i più forti sono loro. Riprendono a macinare gioco, costringendo gli avversari a difendersi, e alla fine segnano due volte. Ma ciò che fa infuriare i nazisti è il gol mancato di proposito da Klimenko, che dopo aver saltato mezzo Flakelf, portiere compreso, non calcia nella porta vuota e, dopo aver gettato uno sguardo sprezzante sui soldati tedeschi, spazza il pallone verso il centrocampo. Un’umiliazione incredibile, troppo grande per poter essere tollerata dai tedeschi. Anche gli ucraini lo sanno. Mentre l’orgoglio che li ha guidati nella ripresa va scemando, in loro subentra la paura.
La reazione degli occupanti è immediata. Korotkikh viene preso e ammazzato lì, sul campo. Gli altri vengono lasciati andare, ma il giorno dopo la Gestapo si presenta al panificio e li fa arrestare. Alcuni muoiono subito, altri vengono torturati e poi uccisi.
L’onta è stata lavata, gli uomini che furono la Start non sono più. Solo in tre riusciranno a sopravvivere: Fedor Tyutchev, Mikhail Sviridovsky e Makar Goncharenko. In onore di quest’ultimo verrà eretto un monumento dalla Dinamo Kiev, dedicato “a uno che se lo merita”. Perché, come disse proprio Goncharenko, “non avevamo armi, ma avevamo la possibilità di lottare e vincere almeno sul campo; per la nostra bandiera, per la nostra Patria, per il popolo ucraino. I nazisti avrebbero potuto constatare che non sarebbe stato facile sottometterci e calpestare la nostra dignità”.
Bella storia, no? Peccato che di vero ci sia ben poco. Vediamo cosa.
La realtà dei fatti.
Le due partite tra ucraini e tedeschi non furono eventi estemporanei: nell’estate del 1942 a Kiev fu organizzata una serie di incontri (alcuni sostengono che fosse un campionato vero e proprio, ma non sembra così da altri documenti) che coinvolse varie squadre, quasi tutte militari. Tra queste il Ruch, composto da ucraini collaborazionisti, le formazioni dei battaglioni rumeno e ungherese, l’RSG dell’esercito tedesco, l’MSG.Wal (seconda squadra ungherese) e il Flakelf, un’altra squadra tedesca, formata probabilmente da artiglieri e non da membri della Luftwaffe. C’era poi la Start, creata su iniziativa di Josif Kordik, collaborazionista, direttore di un panificio e grande appassionato di calcio; dopo aver riconosciuto Trusevich al mercato lo aveva preso a lavorare con sé, pregandolo di chiamare vari ex compagni e calciatori per allestire una squadra competitiva.
La Start vinse senza problemi tutte le partite disputate dalla fine di giugno: pur se poco allenati e stanchi per il lavoro, i suoi membri erano comunque degli ex professionisti, mentre i loro avversari erano di livello palesemente inferiore. Il 6 agosto la squadra superò 5-1 il Flakelf, la miglior formazione militare tedesca, e le autorità naziste pretesero una rivincita immediata, da disputare solo tre giorni più tardi. Kordik protestò sommessamente, sottolinenando la scarsa forma dei suoi, ma i tedeschi furono irremovibili; concessero alla Start tre giocatori in più, tre poliziotti ucraini sotto il loro comando (Tkachenko,Timofeyev e Gundarev), e rinforzarono a loro volta la squadra. Il 9 agosto il piccolo stadio Zenit ospitò dunque la seconda partita tra Start e Flakelf. L’atmosfera, sia in campo che sugli spalti, fu assolutamente rilassata e non si verificò nessuno degli episodi da film descritti nel paragrafo precedente, tranne quello del saluto (ma probabilmente nessuno impose agli ucraini di gridare “Heil Hitler”). Non c’erano soldati armati a bordo campo, nessuno minacciò i giocatori prima e durante il match e il gioco fu sì duro, ma in modo del tutto naturale per gli anni ’40. Nonostante la stanchezza di molti giocatori la Start vinse 5-3, e dopo il fischio finale i giocatori delle due squadre fecero una foto insieme sul prato dello Zenit (gli ucraini sono quelli con la maglia scura).
Esistono numerose testimonianze, anche oculari, che smentiscono la storia romanzata della Partita della morte. Vladlen Putistin, figlio del giocatore della Start Mykhaylo Putistin e raccattapalle nel famoso match (aveva 8 anni all’epoca), nel 2002 disse: “Nessuno andò nello spogliatoio per minacciarli prima dell’incontro o nell’intervallo. Mio padre e tutti gli altri tornarono a casa per celebrare la vittoria”. Dieci anni prima di questa dichiarazione era stato uno dei protagonisti dell’incontro, il solito Goncharenko, a smentire se stesso e la propaganda sovietica attraverso un’intervista a Radio Kiev, nella quale rivelava che nessuno aveva minacciato di morte lui e i compagni in caso di vittoria.
Vi sono poi diversi giornalisti e storici ucraini che negli anni hanno analizzato e smontato la leggenda: il primo è stato Georgi Kuzmin, che nel 1992 è arrivato alla conclusione che la Partita della morte, per come è stata raccontata, non avvenne mai. Volodymyr Hynda ha poi verificato come durante l’occupazione nazista furono giocati moltissimi incontri in tutta l’Ucraina tra squadre del posto e formazioni militari tedesche, match che videro spesso uscire quest’ultime con le ossa rotte: secondo Hynda, che è riuscito a documentare i risultati di 111 partite, le squadre ucraine ne vinsero 60, pareggiandone 15 e perdendone 36.
Non c’è dunque da stupirsi se anche la principale architrave della versione “leggendaria”, ovvero che i membri della Start furono presi dai nazisti il giorno dopo la partita, si è rivelata altrettanto inesatta: come riportano i giornali di Kiev di quel periodo, una settimana dopo la vittoria sui tedeschi Trusevich e compagni erano ancora liberi e avevano umiliato sul campo il Ruch, la squadra dei collaborazionisti, con un inappellabile 8-0.
Fu due giorni dopo quel match che sei giocatori della Start vennero effettivamente arrestati dalla Gestapo, seguiti da altri due nelle successive 48 ore. Non tutti dunque, e non subito. Ma perché furono arrestati? Una possibile risposta la fornisce Mario Alberto Curletto, docente universitario, grande appassionato di calcio sovietico e autore tra gli altri de I piedi del Soviet. Il futbol dalla Rivoluzione d’Ottobre alla morte di Stalin, nel quale dedica un capitolo proprio all’analisi critica della Partita della morte (qui una sua intervista raccolta dal blog Pagina Duecento). Basandosi sulle dichiarazioni del 1992 di Goncharenko, Curletto ipotizza una “vendetta” da parte del patron del Ruch, un certo Svecov, che avrebbe mosso gravi accuse ai membri della Start di fronte alla autorità tedesche. I nazisti decisero di agire e arrestarono vari ex giocatori della Dinamo Kiev: non bisogna dimenticare che i tesserati della Dinamo (come accadeva in tutti i paesi sovietici) erano membri effettivi dell’esercito, dunque sospettarli di appartenenza all’NKVD aveva una sua base logica; ciò spiegherebbe per quale motivo gli ex calciatori del Lokomotiv non vennero fermati, cosa che i sostenitori della versione classica ignorano o evitano di citare. Secondo lo storico Vitaly Hedz i ragazzi della Start furono catturati per aver tentato di uccidere alcuni ufficiali nazisti sbriciolando del vetro nel pane loro destinato (lavoravano quasi tutti in un panificio), mentre altre fonti ritengono che i tedeschi, arenatasi a Stalingrado l’offensiva in Russia, strinsero le maglie e iniziarono a controllare in modo molto più stretto i potenziali membri dell’NKVD.
Qualunque sia stato il motivo dell’arresto, è fondamentale rilevare come le vittime dei tedeschi furono quattro, quando molti articoli parlano di sterminio dell’intera squadra. Nikolaj Korotkich fu l’unico degli accusati a essere identificato come militare in servizio attivo: morì dopo alcuni giorni di tortura da parte della Gestapo, ma tuttora non è chiaro se fosse realmente in servizio dell’NKVD. Le altre tre vittime (Trusevich, Klimenko e Kuzmenko) furono uccise il 24 febbraio del 1943, ovvero sei mesi dopo la partita tra Start e Flakelf, insieme ad altri prigionieri del campo di concentramento di Syrets; non si conosce il motivo dell’esecuzione (una ribellione, un tentativo di fuga e il rifiuto di impiccare alcuni compagni sono quelli più probabili per gli storici), ma di certo il motivo scatenante non fu la sconfitta del Flakelf, anche perché nel gruppo dei fucilati figuravano persone che non avevano alcuna correlazione con la Start. Per quanto riguarda gli altri giocatori arrestati, Balakin fu rilasciato mentre gli altri furono portati a Syrets e assegnati a vari gruppi di lavoro (Putistin, Tyutchev e Komarov agli elettricisti, Sviridovsky e Goncharenko ai calzolai); rimasero nel campo per più di un anno, fuggendo in tempi diversi prima della liberazione di Kiev nel novembre del 1943. Komarov non fuggì ma lasciò Kiev con le truppe tedesche (non si sa se volontariamente o meno), quindi emigrò in Canada a guerra finita. Dei tre poliziotti ucraini che figuravano nella lista dei giocatori della Start per la partita del 9 agosto, Tkachenko fu ucciso dopo aver aggredito un membro della Gestapo, mentre Timofeyev e Gundarev furono accusati di collaborazionismo e rinchiusi in un gulag per 5 e 10 anni rispettivamente.
Un’ulteriore prova dell’assoluta estraneità della cosiddetta Partita della morte con i tragici fatti successivi è stata data dalla giustizia tedesca: due inchieste condotte in Germania, una nel 1974 e una nel 2005, si sono infatti chiuse ribadendo l’assenza di connessioni tra l’incontro tra Start e Flakelf e le morti di alcuni dei giocatori ucraini. Il vero mistero è per quale motivo si continui a spacciare per vera una versione dei fatti smentita anche da un tribunale.
La propaganda e il silenzio.
Perché una vicenda piuttosto lineare, suffragata da prove documentali e testimonianze dirette, è stata stravolta fino a diventare un eroico episodio di resistenza sul campo di calcio?
In tale processo di trasformazione il ruolo principale è stato senza dubbio giocato dalla propaganda sovietica. Il primo a scrivere delle esecuzioni di alcuni ex giocatori ucraini fu il corrispondente di guerra Evgenij Krieger, appena dieci giorni dopo la liberazione di Kiev, senza citare però la partita tra Start e Flakelf. La storia iniziò a circolare ed esplose tra la fine degli anni ’50 e l’inizio dei ’60: articoli, romanzi e il film del 1964 Terzo Tempo resero celeberrima la sfida calcistica tra ucraini e nazisti, ribattezzata con gran senso drammatico “la partita della morte” dallo scrittore LevKassil. La propaganda dell’URSS non poteva più ignorare questo episodio, peraltro verificatosi in una zona nella quale gli atti di ribellione contro gli occupanti non erano stati numerosi. Il governo sovietico decise dunque di cercare eventuali sopravvissuti della partita, fino a quel momento rimasti in silenzio (tranne Balakin, autore della prefazione per un libro intitolato L’ultimo duello) per evitare accuse di collaborazionismo. Nel 1965, individuati i reduci, il Soviet Supremo conferì la “Medaglia per il coraggio” alla memoria dei quattro giocatori morti (dunque già allora si sapeva che la squadra non era stata sterminata completamente…) e la “Medaglia per merito in battaglia” ai giocatori ancora in vita, ovvero Balakin, Goncharenko, Melnik, Sukharev e Sviridovsky. Anatoly Kuznetsov nel 1966 provò a confutare la versione romanzata della partita in un capitolo del celebre libro Babi Yar, ma la sua fuga in Inghilterra, tre anni più tardi, condannò all’oblio quel tentativo. Perfino il KGB invitò a non glorificare eccessivamente alcuni “noti collaborazionisti”, ma la città di Kiev nel 1971 eresse ugualmente un monumento ai suoi eroi.
In tutto ciò non deve stupire il silenzio complice di chi avrebbe potuto smentire senza difficoltà la versione adottata e diffusa in maniera ancor più capillare dalla propaganda sovietica. Con l’eccezione di Putistin, che rifiutò l’onorificenza per non avallare un falso storico, gli altri accettarono e confermarono. La paura di un’eventuale accusa di collaborazionismo con il regime nazista, che avrebbe potuto portare al processo e alla detenzione, consigliò ai reduci del match di assecondare le autorità sovietiche. Fu solo dopo la caduta dell’URSS che la versione ufficiale iniziò a sgretolarsi, anche grazie alle già ricordate dichiarazioni di Goncharenko del 1992.
Il successo mediatico della “leggenda”.
Come abbiamo visto, per interi decenni la storia della Partita della morte rimane confinata aldilà della cortina di ferro. Poi, nel 1981, Fuga per la vittoria esce nei cinema di tutto il mondo e si comincia a parlare della vera partita che aveva ispirato il film. Le prime smentite alla versione ufficiale probabilmente passano sotto silenzio o quasi, visto che la storia del match non è ancora molto conosciuta.
La svolta arriva nel 2001, con un libro di non fiction scambiato per un lavoro storicamente affidabile: si tratta di Dynamo. Defending the honour of Kiev dello scozzese Andy Dougan. Chi è Dougan? Un giornalista sportivo, uno storico del calcio, un esperto di Seconda Guerra Mondiale? Niente di tutto questo. È un giornalista che solitamente si occupa di celebrità hollywoodiane, come dimostra una produzione dove spiccano le fondamentali biografie di Robert De Niro, George Clooney e Robin Williams. Non è chiaro come si sia imbattuto nella Partita della morte, ma di certo la sua trattazione della vicenda è tutto fuorché rigorosa: nel suo libro il tragico destino dei giocatori della Start è visto come la diretta conseguenza della vittoria sul Flakelf, non un caso visto che l’autore si è basato unicamente sulla versione rivista dalla propaganda sovietica. Dougan ha inoltre aggiunto di sana pianta i dialoghi tra i giocatori e i nazisti e ha inserito particolari già sbugiardati dagli storici russi: tra questi, le maglie rosse della Start come simbolo della fede comunista dei calciatori, l’invito dell’arbitro a fare il saluto nazista e i soldati tedeschi armati a bordo campo. La cosa peggiore è che il giornalista tra le sue fonti cita Kuzmin, l’autore dei primi lavori volti a sbugiardare la versione ufficiale, eppure ne ignora completamente le conclusioni; insomma, fa finta di non sentire la campana che rovinerebbe tutto il suo lavoro. Lavoro comunque dichiaratamente romanzato, cosa che sembrano ignorare tutti coloro che dal libro di Dougan hanno tratto ispirazione negli anni successivi.
Rimanendo in Italia, è quasi impietoso analizzare i moltissimi articoli che sono stati dedicati negli anni alla Partita della morte. Senza parlare troppo di blog (basta fare una ricerca su Google per trovare pezzi che sembrano fatti con lo stampino, frasi iperboliche e strappalacrimiche a parte), anche nel pezzo di una grande del giornalismo sportivo come Emanuela Audisio, cronista de la Repubblica, o nelle trasmissioni radio di un certo FedericoBuffa e addirittura di Carlo Lucarelli (rispettivamente Characters e Dee Giallo) si ritrovano tutti i luoghi comuni creati dalla propaganda, ripresi da Dougan e inutilmente smentiti da anni di ricerca storica seria. Gli amanti del trash più spinto saranno felici di sapere che anche uno dei loro idoli, il Roberto Giacobbo dei cerchi nel grano e Rennes-le-Château, ha dedicato una puntata del dimenticabilissimo Voyager alla Partita della morte, intitolandola “In 11 contro il Reich” e dichiarando palesemente (minuto 4:41 del video) di avere utilizzato come fonte il libro di Dougan. Insomma, autori anche di primissimo piano continuano a basarsi su una versione smentita da tempo solo perché più epica e funzionale alla narrazione. E tanti saluti a Kuzmin, Curletto e a tutti quelli che hanno cercato e cercano tuttora di ristabilire la verità dei fatti.
La conclusione che emerge al termine di questa lunga trattazione è piuttosto chiara. Nonostante la versione classica della Partita della morte sia stata ampiamente confutata, sembra impossibile riuscire a sradicarla in modo definitivo dall’immaginario popolare. Perché continuare a diffonderla? Per pigrizia, innanzi tutto. Un copia/incolla è sempre una soluzione facile, mentre informarsi su fonti almeno di seconda o terza mano presuppone un impegno diverso. E poi c’è la discrepanza tra leggenda e realtà: un conto è raccontare una partita epica, tra arbitri-SS, mitragliate sul campo e fucilazioni negli spogliatoi, un altro riportare i nudi fatti per come sono, togliendo loro l’aura di mito che si portano dietro. Ne risentono l’epica del racconto e lo stile dei vari pezzi (e, perché no, i clic).
A questo punto potremmo scrivere che noi preferiamo andare in direzione ostinata e contraria, espressione che sembra piacere parecchio a certi pseudo-alternativi contemporanei. Non è così. A noi piacciono la verità, il rispetto della storia, la rigorosità della testimonianza. Il calcio, come ogni altra manifestazione umana, trascende il suo significato originario (in questo caso di semplice sport) quando viene inquadrato in un contesto più grande. Raccontare la Partita della morte significa parlare della Seconda Guerra Mondiale, di centinaia di milioni di morti, di una delle più grandi tragedie del ventesimo secolo e non solo. Stravolgerla, rappresentandola come un mitologico scontro tra le forze del Bene e del Male, è una mancanza di rispetto per la storia e per quelli che cercano di raccontarla in modo aderente ai fatti. E anche per i giocatori della Start, il cui vero eroismo (dare speranza attraverso il pallone, resistere nonostante tutto, tirare avanti di fronte ai nazisti) sparisce nel confronto con l’inesistente sacrificio della Partita della morte. Chi racconta la leggenda al posto della verità di certo non rende loro giustizia.